24 dicembre 2019
Elogio del giornalista ironico: Lorenzetto
e il suo dizionario delle citazioni sbagliate
di SALVATORE MERLO
Un giorno Gianfranco Piazzesi, che era un giornalista come dev’essere un giornalista, cioè fantasioso e un po’ insolente, chiese a Franco Evangelisti, che era l’ombra rozza ed eterna di Giulio Andreotti, quali fossero mai le ragioni d’un avvicendamento all’interno d’una grande azienda pubblica. Ed Evangelisti, romano di scarse letture, gli rispose così: «Lo abbiamo sostituito perché stasa». E Piazzesi, canzonatorio, riportò la risposta così come l’aveva sentita: «Stasa», appunto, cioè stura.
Che fine hanno fatto i giornalisti alla Piazzesi? L’ironia è oggi una pulce, in tempi totalmente occupati dal pachiderma dell’eccesso, dell’abnorme, in cui vige un codice fatto di «slurp», «lecca-lecca», essudati, nomignoli, pernacchie e flatulenze che sono l’esatto contrario del codice dello sberleffo e della ribalderia: una tirannia forse inestirpabile e nei confronti della quale viene sovente voglia di dichiararsi sconfitti. Eppure, qua e là, ci sono ancora giornalisti che l’ironia la praticano - per indole e per mestiere - ricordandoci ogni volta come questa virtù non sia soltanto la migliore tradizione del giornalismo italiano, ma probabilmente anche una veste dell’anima, che si accoppia con il distacco e la distanza, la sobrietà e la leggerezza.
Leggendolo, da anni e con grande gusto, bisogna dire che Stefano Lorenzetto è uno degli ultimi appartenenti a questa grande razza condannata eppur indispensabile, quasi i pellerossa o i pigmei: i giornalisti spiritosi e fantasiosi, dunque non di sinistra ma nemmeno (come si dice oggi) sovranisti, uno di quelli che sembra ricordarci in ogni sua riga, come diceva Elémire Zolla, che l’eccesso è segno del contrario di ciò in cui si eccede. Un esempio è proprio questo delizioso dizionario delle citazioni sbagliate (Chi (non) l’ha detto, edito da Marsilio), trecentonovanta pagine tra le quali zampettare ridacchiando, da Andreotti a Zoroastro da Peretola, un compendio salace e colto con il quale Lorenzetto fa per l’appunto la smorfia alla smorfia citazionista, che è uno dei tic del cretino intelligente.
Quanto sono belli certi aforismi di Ennio Flaiano, tipo quando scrisse che «i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». In verità, ci ricorda Lorenzetto, la frase è di Mino Maccari. Però bisogna ammettere che attribuirla a Flaiano fa molta più scena. E infatti Flaiano, purtroppo, assieme a Leo Longanesi e Indro Montanelli, è diventato una banalità e un’impostura sulla bocca dei banali. E insomma Lorenzetto ha così composto un dizionario dal valore persino pedagogico. Ma con levità, appunto. Va comprato per Natale. E letto. Ci fa pure riflettere su come potremmo essere, e non siamo più.
4 luglio 2019
Montanelli o Mike Bongiorno?
La vita è una citazione (sbagliata)
di GIANCRISTIANO DESIDERIO
Una volta Indro Montanelli confessò che quando era incerto sulla
paternità di una citazione tagliava la testa al toro e
l’attribuiva a Montesquieu che considerava così autorevole da
aver potuto dire praticamente di tutto. Sulla fallibilità della
memoria umana e sull’escamotage montanelliano è costruito il
libro di Stefano Lorenzetto che non saprei dire se è più
divertente o più istruttivo: Chi (non) l’ha detto
(Marsilio).
Le cose che scrive Lorenzetto, che
Mario Cervi chiamava l’Oracolo - scoprite voi perché -,
vanno lette sempre con considerazione, talmente è preciso,
scrupoloso, enciclopedico al limite dell’infallibilità. Per
capirci: questo «dizionario delle citazioni sbagliate» ha la
bellezza di ben tre indici: i presunti autori, i nomi, le
citazioni. Si va da Gesù a Nereo Rocco, da Agostino d’Ippona
a Carlo Cottarelli, da Benito Mussolini a Donald Trump, da
Francesco d’Assisi a Moana Pozzi con il risultato, per dirla
con una citazione, che «il naufragar m’è dolce in questo
mare». Così il modo migliore di leggere il libro-dizionario
è scorrere l’indice delle citazioni. Qui viene il bello.
Prendiamo un classico: Giulio
Andreotti. Era bravo nelle battute e negli aforismi, quasi
quanto Ennio Flaiano. Senz’altro sua è «il potere logora chi
non ce l’ha», che va quasi a braccetto con «a pensar male si
fa peccato, ma spesso s’indovina».
Quest’ultima, però, non è di Andreotti
ma, forse, del cardinale Francesco Marchetti Selvaggiani e
il giovane Andreotti, come ricordò lui stesso, la sentì per
la prima volta nel 1939, pronunciata dal porporato
all’Università Lateranense.
Tuttavia, nello stesso anno la frase
apparve nelle cronache milanesi del Corriere della Sera
e ancora il 9 giugno 1969 nella rubrica del Proverbio del
giorno: «A pensà maa se fa maa, ma se induvinna». Fu,
però, Giovanni Malagodi a identificare la frase con
Andreotti quando in un’intervista nel 1977 disse che il
democristiano dava dei giudizi sugli uomini sostanzialmente
veri, ma era un po’ troppo incline ad abusare del «detto
toscano» che «a pensar male si fa peccato ma spesso
s’indovina».
Altra citazione: «Dio è morto, Marx
pure, e anche io non mi sento molto bene». Enzo Biagi, che
ricorreva non poco alle frasi celebri ed a effetto,
l’attribuì a colpo sicuro a Woody Allen e per ben due volte
su Panorama nel 1992 e nel 1996, ma la frase è,
invece, di Eugène Ionesco, drammaturgo del teatro
dell’assurdo, anche se non si sa né dove né quando l’abbia
effettivamente pronunciata. Il che è un po’ assurdo.
Come, in fondo, è un po’ assurda la
storia della frase più celebre di Mike Bongiorno che Mike
Bongiorno non disse: «Ahi ahi, signora Longari, mi è caduta
sull’uccello!». Per iniziare la Longari, campionessa di
Rischiatutto, non esiste perché il vero nome della donna
è Maria Giuliana Toro, che nel 1998 rivelò: «Mai pronunciata
quella frase. Mica per niente: io stavo lì, no? Ha sempre
smentito anche Bongiorno. Ho rivisto le registrazioni di
tutte le puntate. Niente di niente. È buffo che io sia
ricordata per un falso clamoroso. Potenza della televisione.
Non è vero ciò che è vero, è vero solo quello che la gente
ritiene sia vero». Ma la frase piaceva così tanto che alla
fine Mike, anni dopo in un’altra trasmissione, disse
veramente la frase che non disse mai. La verità è che la
citazione ha un suo fascino e, come diceva Jorge Luis
Borges, «la vita stessa è una citazione», sempre che l’abbia
effettivamente detto, avverte ironicamente Lorenzetto. Ecco
perché la citazione perfetta è quella non scritta: non è
vera ma è verosimile e per questa sua potente qualità alla
fine è di fatto un mito.
Il montanelliano «turatevi il naso ma
votate Dc» è leggendario. Il grande giornalista scrisse
l’editoriale sul Giornale il 4 maggio 1976: temeva il
sorpasso del Pci sulla Dc e invitò i lettori a turarsi il
naso e votare i democristiani. Da quel momento in poi la
frase di Montanelli è diventata un modo di dire per dire che
a volte, per evitare guai peggiori, bisogna fare di
necessità virtù. Sennonché, non solo la frase non era di
Montanelli, ma di Gaetano Salvemini e risaliva, addirittura,
ad Adolf Hitler, ma in quello storico «fondo» il giornalista
non la scrisse. Eppure, tutti citiamo Montanelli, proprio
come Montanelli citava Montesquieu. Vien quasi da correggere
Borges: la vita è una citazione sbagliata.
1 settembre 2016
Che gran scrittore Lorenzetto
Peccato solo che abbia torto...
di VITTORIO FELTRI
Stefano Lorenzetto, veronese incapace di
staccarsi da Verona, che considera l’ombelico del mondo, è un
grande giornalista e lo era anche da piccolo, nel senso di molto
giovane. È nato con un formidabile talento incorporato ed è
cresciuto cercando di dissiparlo senza però riuscirci del tutto,
tanto è vero che continua a distinguersi per bravura e quantità
produttiva. Scrive notte e giorno: articoli, specialmente
interviste (la sua inimitabile specialità), libri a iosa. Forse
scrive anche sui muri per tenersi in allenamento. E io che lo
apprezzo leggo la sua prosa deliziosa dovunque, perfino su
riviste che compriamo solamente lui e io.
Andare d’accordo con Stefano è più difficile che avere buoni
rapporti con la suocera più pestifera. Parlargli è piacevole
fino a che, all’improvviso, senza che te ne accorga, si adombra
e diventa antipatico. Basta un nonnulla a irritarlo: una parola
storta, un concetto che non condivide, una frase che giudica
inopportuna. Vuole sempre avere ragione e quasi sempre ce l’ha.
Le sue opere sono numerose e non le ricordo tutte. Alcune recano
anche il mio nome quale coautore, ma la fatica maggiore nel
comporle è stata sua. Io sono pigro, lui è iperattivo. Lavora
troppo per avere successo pieno, non gli resta tempo per curare
la carriera. Avere Lorenzetto in squadra è una benedizione per
la qualità che vi porta e una maledizione per i problemi di
rapporti che vi crea.
Il suo stile è impeccabile. Ricorda quello dei migliori (pochi)
suoi conterranei (veneti): Marchi, Nascimbeni, Parise, Berto.
Padroneggia l’italiano, di cui è custode rigoroso sino alla
pedanteria. Affidargli un pezzo da passare significa predisporsi
ad atroci sofferenze. Ti segnala anche la più piccola
imperfezione, che talvolta tale non è, ma è una semplice licenza
dialettale. Lo devi sopportare perché in fondo la sua perizia ti
salva da figure di merda.
Conosco Stefano da oltre 30 anni. È stato mio vicedirettore
(vicario) al Giornale all’epoca in cui succedetti a
Montanelli. Faceva tutto lui. Raramente ho osato contraddirlo.
Quando l’ho fatto me ne sono pentito. Discutere con lui
significa soccombere per sfinimento. Egli ha tanti difetti
sovrastati da pochi pregi di alto livello. Gli sono grato per
quanto ha dato al giornalismo, e a me, ricavando meno di quanto
meritasse.
Oggi esce con questo libro che esalta il no al prossimo
referendum confermativo. Lo si legge di un fiato e lo si
gradisce per la limpidezza del linguaggio. Le idee sono espresse
con chiarezza e proprio perché le ho capite bene le respingo in
toto. Ho la sensazione che egli abbia torto, come sempre. Ma è
questa la sua forza, il motivo per cui Lorenzetto è il collega
che stimo di più. Alla lunga mi fa sentire alla sua altezza.
Probabilmente sbaglio.
27 maggio 2016
“Giganti”. Stefano Lorenzetto esercita
l’arte della maieutica e compone
una nuova galleria dei suoi “tipi italiani”
di ALDO CAZZULLO
Chi sa di giornalismo sa che l’intervista, insieme con
l’inchiesta – quella vera –, è di gran lunga il genere più
difficile. Il reportage e il commento sono molto più semplici.
Certo, devi andare sul posto, parlare con la gente, studiare,
prepararti. Ma sei comunque solo con te stesso. L’intervista
presenta questa complicazione: l’intervistato. E l’intervistato
non è lì ad aspettare te (se lo è, sono interviste che non
lasciano traccia). Puoi decidere di fare bella figura occupando
la scena, magari alterando le domande, giocando la parte di chi
gliele canta chiare. Oppure puoi lavorare sulla persona che hai
di fronte, sino a cavargli fuori le cose che aveva dentro e non
pensava di poter dire. Poi nella stesura devi sintetizzare,
rispettando le parole e il pensiero dell’intervistato, ma anche
trovando la forma più scorrevole e incisiva possibile. Meno
l’intervistatore occuperà la scena alla fine, migliore sarà
l’effetto; il lavoro resta dietro le quinte. Ci sarà chi non lo
capisce, o finge di non capire: pazienza.
Stefano Lorenzetto usa questa tecnica.
Non a caso è un intervistatore straordinario. Uno dei
migliori giornalisti italiani. Ho amato tutti i suoi libri,
a cominciare da Cuor di veneto, che rende giustizia alla
regione più maltrattata e sottovalutata d’Italia; ma i
migliori sono quelli in cui dà la parola a chi non l’ha mai
avuta.
Già Tipi italiani era un autentico
viaggio nella nostra provincia profonda attraverso una
galleria di personaggi. Ora con Giganti – pubblicato come
sempre da Marsilio – Lorenzetto porta in scena «italiani
seri nel Paese del blablà».
C’è il cieco amico di Bocelli diventato
il mago dei suoni del cinema (meraviglioso il racconto della
morte di Michelangelo Antonioni). Abramina Pirlo, la
circense che assiste nel suo camper il figlio ex trapezista
ora disabile. La madre di due poliziotti caduti in servizio.
L’imprenditore che assume i malati. La donna che ha
incontrato 60 mila genitori che hanno conosciuto la massima
disgrazia data in sorte a un essere umano, sopravvivere a un
figlio. L’altra donna che vive a Malpensa da sedici anni.
L’industriale che possiede il maglio più grande del mondo ma
non ha potuto montarlo in Italia ed è dovuto andare in Texas
(«g’ho ciamà i me tosi a Houston…»). Il suo collega che si
batte per i cattolici prigionieri nei laogai, i lager
cinesi. Il medico che cerca donatori di musica.
Poi ci sono i personaggi pubblici.
Ermanno Olmi che racconta la sua amicizia con Celentano
lunga mezzo secolo. Liliana Segre che rievoca Auschwitz.
Giorgio Boatti che smonta la comunità di Bose. Onestamente,
non tutti mi sono parsi convincenti. Si capisce benissimo,
ad esempio, che il vescovo Luigi Negri vede papa Francesco
come il fumo negli occhi; però trova sempre un giro di
parole per non ammetterlo. E Piero Buscaroli è ancora fermo
all’idea della Resistenza voluta solo dai comunisti (e
Mozzoni? Montezemolo? Artom? I carabinieri delle Ardeatine?
Sogno? Galimberti? Fenoglio?). Pazienza. Le parole
appartengono a chi le dice; e compito dell’intervistatore
non è ricercare la medietà, che spesso confina nella
mediocrità. Con tutti Lorenzetto applica la propria arte
maieutica. E da tutti cava fuori cose che non pensavano di
poter dire.
26 aprile 2016
Preghiera
di CAMILLO LANGONE
Sant’Agostino, tu definisti l’invidia il peccato diabolico per eccellenza e dunque spero leggerai benevolmente queste mie righe nelle quali esorto ad ammirare Stefano Lorenzetto e il suo Giganti (Marsilio). Il sommo intervistatore vi intervista Marco Bartoletti che salva i malati di tumore dalla disoccupazione, Paola Bonzi che salva i bambini e le madri dall’aborto, Daniele Kihlgren che salva i borghi appenninici dall’abbandono, Costanza Miriano che salva i coniugi dal divorzio, padre Alfredo Maria Paladini che salva i carcerati dalla disperazione, Eugenio Pol che salva il pane dal lievito di birra, Riccardo Ruggeri che salva i lettori di economia dagli amministratori delegati… Alla decadenza antropologica d’Italia, Lorenzetto oppone le sue magnifiche eccezioni e così il suo libro equivale a una dose di ormone della crescita e leggerlo significa potare la gelosia e innaffiare la meraviglia.
26 marzo 2016
Dai borghi degli Appennini alle
Ande
Imprese eroiche di gente normale
di MARZIO BREDA
Una comunità sotto narcosi, che neppure mugugna. Un
popolo intorpidito dall’overdose di chiacchiere (lo «storytelling elevato a forma di governo») distillate da una classe
dirigente in pieno delirio narcisistico. E un premier che si
fa forte di una pretesa «assenza di alternative all’infuori
di me» e, proiettandosi molto al di là della normale
autostima, lancia interdetti contro chiunque esprima dubbi
sulla ripartenza del Paese sotto la sua guida. Una
Repubblica dove ormai rischia di entrare in crisi il
concetto stesso di democrazia rappresentativa e dove
«mancano gli uomini, mentre abbondano gli ometti». Cioè
pigmei senza alcun respiro etico, capaci solo d’inventare
«favole della buonanotte per mettere a letto felici gli
italiani».
È dura fino ai toni dell’invettiva, la denuncia di
Stefano Lorenzetto sullo stato dell’Italia oggi. Così
sconfortata e disperante da spingerlo a cercare qualche
antidoto per quanti s’indignano come lui e, rifiutando la
retorica dell’ottimismo, si deprimono all’idea di
appartenere alle prime generazioni «che consegneranno ai
figli un futuro ben peggiore di quello che abbiamo avuto in
eredità noi». Gli antidoti in grado di farci recuperare
fiducia, nonostante l’aria di sfascio, sono le 35 storie che
questo intervistatore-principe ha raccolto in
Giganti. Italiani seri
nel Paese del blablà (Marsilio editore).
Persone quasi sempre sconosciute e che il giornalista
propone perché li lega un rapporto morale con il mondo.
Succede con Marco Bartoletti, ex tornitore e assicuratore
fiorentino, che ha fondato un’azienda cui si affidano i
maggiori marchi del mondo per le loro borse (da Cartier a
Hermès a Prada) e assume malati di tumore, disabili psichici
e pensionati, pagando alle gestanti quasi 2 anni di
stipendio «purché restino a casa». Il suo è evidentemente un
buon investimento, considerato che ha visto crescere il
fatturato dell’11 mila per cento in 12 anni. Altro caso,
quello di Pietro Gamba, operaio divenuto medico che 25 anni
fa ha scelto di andare con la moglie biologa a vivere sulle
Ande, a 3.200 metri d’altitudine, dove ha aperto un ospedale
per curare i
campesinos. Ovviamente gratis.
Nuovi «giganti», che s’ispirano alle tre virtù
indispensabili per ogni buona vita: «La
gravitas, intesa
come serietà, la
dignitas e la
pietas». Valori difficili da coltivare. Specie se si
parte con un tremendo svantaggio, com’è toccato a Bruno
Carati, di Castelseprio, nel Varesotto, la cui vicenda è
diventata uno spettacolo teatrale. Tetraplegico dalla
nascita, dipinge senza mani e ha mantenuto la famiglia
(anche la moglie è priva dell’uso del braccio destro) con i
suoi quadri, «rinunciando alla pensione d’invalidità e
mantenendosi da solo». Altra vicenda esemplare, quella di
Daniele Kihlgren. Suo nonno creò la Ericsson e salvò molti
ebrei dalle deportazioni naziste; lui, abbandonato a due
anni, dopo un’esistenza spericolata tra droga e Aids, ha
comprato borghi diroccati e spopolati tra l’Abruzzo e Matera
(in Italia così ce ne sono 2 mila) e li ha fatti rivivere
trasformandoli in alberghi diffusi. Risultato: posti di
lavoro e rilancio dell’anagrafe.
Infine, parabola di vero eroismo, la storia di Maria
Teresa Salaorni Turazza, cui hanno ucciso gli unici due
figli, poliziotti. Il primo caduto sventando una rapina, il
secondo per fermare un serial killer. Ha raccontato a
Lorenzetto: «Ho perso la memoria per cinque anni. Ero ogni
giorno in questura, correvo incontro a tutti. Non incolpo
Dio. E ho perdonato. I genitori degli assassini stanno molto
peggio di me». Ora fa da mamma a tutti gli agenti d’Italia.
Ecco i giganti d’oggi, altro che blablà.
26 aprile 2014
Le pagelle di
Feltri
a 50 anni di Italia
di SERGIO FRIGO
Dieci e lode a due giornalisti, Oriana Fallaci e Nino Nutrizio;
solo due ad un’altra collega, Camilla Cederna, e a due politici,
Gianfranco Fini e l’ex tesoriere della Margherita, Luigi Lusi:
sono le pagelle assegnate da un maestro un po’ particolare come
Vittorio Feltri, nel suo nuovo libro Buoni e cattivi,
scritto con Stefano Lorenzetto e appena pubblicato da Marsilio
(€ 19,50): un tomo di 540 pagine, con 211 “candidati” che
potrebbero anche essere suddivisi fra “amici e nemici”, vista la
soave perfidia che il giornalista bergamasco riserva ai suoi
“antipatizzanti”. Va detto che una certa prevedibilità nelle
promozioni e nelle bocciature (riscattata dal sorprendente 9
attribuito a Marco Travaglio, «forse il più bravo giornalista
d’Italia») e qualche omissis su questioni che hanno visto Feltri
attore in prima persona, sono gli unici difetti di un libro
denso di fatti, ricco di retroscena e decisamente divertente.
Tra le sue pagine sfilano - anzi, meglio: vengono sorpresi - i
protagonisti degli ultimi cinquant’anni di vita italiana,
politici e giornalisti in primis, ma anche scienziati e
soubrettes (Umberto Veronesi e Michelle Hunziker, ad esempio,
entrambi gratificati di un 10) rivelati nei loro vizi e virtù,
nei successi e nelle disavventure (come la rovinosa caduta
dell’ex presidente Ciampi durante una... gara di corsa con la
moglie Franca). Ecco dunque Berlusconi (voto 9, anche se è
«sincero solo quando mente»), che offre a Feltri l’assunzione
mentre il giornalista viene assalito da un’irrefrenabile
diarrea; ecco Agnelli, inchiodato a un irrimediabile 3, per aver
distrutto la Fiat e farsi ricordare solo per «l’orologio sopra
il polsino e la cravatta sopra il pullover»; ecco Renzi (5),
Napolitano (4.5), D’Alema (7): Baffino, per la cronaca, è
l’unico esponente del centro-sinistra a meritarsi una
sufficienza piena (a Prodi va uno stitico 6).
Imperdibili le ricostruzioni dei rapporti di Feltri coi colleghi
più illustri: punzecchia Montanelli (ha tradito Berlusconi),
demolisce Biagi e Bocca (il primo «ha scritto più libri di
quanti ne abbia letti», il secondo era «una grandissima
carogna»), ma attribuisce loro rispettivamente un 10 e due 9,
perché sono stati dei grandi del giornalismo. Ma dà un 10 anche
a Vespa e un 8 a Scalfari, al quale pure non risparmia nulla. E
ne ha anche per Belpietro e Sallusti (voto 7), con cui ha
fondato e diretto giornali.
Qualche capitoletto è dedicato ai veneti: Tina Anselmi, ad
esempio, per la quale Feltri non nasconde una decisa antipatia
(voto 3); «in un mio articolo, sbagliando, l’ho data per morta -
scrive perfidamente - ma non se n’è accorto nessuno. Segno che
non si avverte la sua mancanza dalla scena pubblica». Per “farsi
perdonare” ne ricorda la riforma sanitaria, indicata
ingenerosamente come l’origine della “mangiatoia” nazionale
nella sanità, e la corposa inchiesta parlamentare sulla P2, a
cui corrisposero le assoluzioni degli adepti alla loggia
massonica da parte della magistratura. “Meglio” di lei se la
cava persino Renato Baron (voto 4), il veggente di Poleo (Schio)
poi finito sotto inchiesta (e infine assolto, e scomparso nel
2004) per abuso della credulità popolare; meglio (5) anche il
faccendiere veronese Adriano Zampini, che nel 1983 fu il
precursore di Tangentopoli.
Risalendo la classifica, si merita un 7.5 Renato Brunetta,
“tipetto peperino”, con un unico difetto: «quando mi incontra
pretende l’abbraccio con il bacio, e il giorno dopo mi si
acuisce il mal di schiena». Ben 9, infine, ottiene il banchiere
Ennio Doris, di Tombolo, immortalato mentre (anonimo impiegato
dell’Antoniana di Padova) tampina per ore Silvio Berlusconi a
Portofino fino a strappargli una partnership fifty-fifty nella
sua Mediolanum.
Un cenno spetta ad un altro veneto, il coautore veronese Stefano
Lorenzetto, che di Feltri fu vicedirettore al Giornale e
che gli ha già dedicato un libro di successo (Il Vittorioso)
nel 2010: per lui («il miglior intervistatore italiano mai
esistito», copyright Premio Agnes) si può forse parafrasare
quello che il veggente Baron dice della Madonna, «i concetti
sono suoi, io sono lo strumento che trascrive»; e Feltri sarà
pure la Madonna, ma nel giornalismo la trascrizione fa la
differenza...
21 giugno 2013
Anna la cantante,
il regista
e gli altri «leoni» veneti
di LUCIANO FERRARO
Stefano Lorenzetto è un veneto stacanovista e astemio. Così
astemio da far scrivere a Camillo Langone: «Se uscisse dal
tunnel della sobrietà diventerebbe il nuovo Sergio Saviane».
Proprio al corrosivo giornalista trevigiano Lorenzetto dedica
uno dei ritratti di Hic sunt leones. Il libro (Marsilio,
332 pagine, 18 euro) è una carrellata di personaggi
straordinari, carichi di forza e ironia, incrociati sulle strade
del successo o osservati nei vicoli del malaffare. Come Vincenzo
Pipino, il ladro gentiluomo di Venezia, il doge delle ruberie
(3.000 furti all’attivo, scrive Lorenzetto), l’uomo che ha
svuotato i piani nobili dei palazzi sul Canal Grande, con
l’accortezza di non rovinare le tele del Canaletto e
l’argenteria rubata (svuotava le zuccheriere su una salvietta di
lino per non sporcare).
Il libro sembra il secondo capitolo di un romanzo, quasi una
saga, che fa capire il Nordest meglio di molti saggi, dando voce
e volte ai suoi abitanti.Il primo, Cuor di veneto, è uscito
nel 2010. Racconta Lorenzetto: «Ho una vera ostinazione a
narrare la mia terra, dove sono tornato a vivere 15 anni fa dopo
circa 3 anni di deportazione a Milano come vicedirettore vicario
di Vittorio Feltri al Giornale».
Il titolo fa riferimento al Leone di San Marco e al coraggio da
leone dei veneti. Lo spunto è venuto da una frase di Anna
Benedetti: «Mi sono sentita un leone, fortissima». Anna,
cantante, sposata con Gianluca Anselmi, musicista, è un’altra
«notevole» nella carrellata veneta. È la mamma di Lucy, una
bimba veronese affetta dalle sindromi di Dandy-Walker e di Down,
una rara combinazione. Chi ne è portatore è privo di una parte
del cervelletto. Il giorno dell’ecografia la coppia pensò
all’aborto. Racconta lei: «Cosa potevo saperne del futuro di
Lucy? E mi ripetevo: non sono io che devo decidere per lei. Poi
di notte, nel dormiveglia, all’improvviso spalanco gli occhi e
vedo una luce accecante, con dentro una frase: "Luce invadi".
Una cosa fortissima, che mi ha attraversato. Lucy gridava che ce
l’avrebbe fatta».
Storia dopo storia (sono 25), svanisce l’immagine del Veneto
sgobbone ma ottuso e un po’ avido, incarognito con i foresti
(i non veneti). Un’immagine banale, un pregiudizio.
Il filo conduttore dei ritratti è il coraggio. Ecco Antonio
Grigolini, l’imprenditore che negli anni 50 portò il pollo
(Arena) sulle tavole degli italiani. O il regista Antonello
Belluco, padovano, che ha girato con mezzi propri Il segreto,
film boicottato sull’eccidio di Codevigo, compiuto dai
partigiani «a Liberazione già avvenuta, ad armi già deposte». E
Massimo Marchiori che ha rinunciato a 10.000 dollari al mese al
Massachusetts institute of technology di Boston per tornare in
Italia come ricercatore, 970 euro mensili. Poi Giuseppe Ongaro,
veronese, ex «tagliatore di teste», come George Clooney nel film
Tra le nuvole: oggi assume solo detenuti.
«Ancora? Non starai esagerando con questi veneti?», ha eccepito
la moglie di Lorenzetto, vedendo il marito stacanovista al
lavoro anche a Natale per finire il libro. «Quel poco che so del
Veneto coincide con tutto ciò che so della vita», è stata la
risposta.
19 aprile 2013
Venticinque
veneti notevoli
Veri «leones» della vita
di GENNARO MALGIERI
“Hic sunt leones”. Ma di preciso, dove? In Veneto, diamine.
Stefano Lorenzetto non ha dubbi. E li elenca, li biografa, li
tratteggia, li propone come modelli da ammirare. Non ha torto.
Sono davvero “leoni” della migliore razza quelli che prende in
considerazione. E naturalmente della sua regione che mostra di
amare in maniera quasi viscerale descrivendo donne e uomini
conosciuti o soltanto sfiorati che riassumono i caratteri di
quella regione che ha un cuore grande e una forza la cui memoria
si perde nel tempo.
Il più capace ed efficace intervistatore contemporaneo,
Lorenzetto, appunto, che ci delizia dal 1999 con le sue
conversazioni a personaggi sia improbabili e che famosi -
“tipi”, insomma - sul Giornale, ci offre un altro libro
“veneto”. E pur rendendosi conto di esagerare descrivendo la sua
gente, come gli fa notare la moglie, non desiste immaginando che
le storie racchiuse nelle vite pubbliche e private che propone
sono paradigmatiche non soltanto di un mondo in via di
estinzione, ma anche di valori che sono sempre più difficili da
rinvenire tra le banalità e le volgarità del vissuto quotidiano
che ci assediano, ci tolgono il respiro e talvolta la voglia di
andare avanti. Il Veneto di Lorenzetto è racchiuso nelle storie
che racconta, con rara efficacia e gusto antico del particolare
e dell’aneddotico. Profili “universali”, direi, vengono fuori da
osservazioni e ricordi che riproducono una società antica eppure
nuova, dinamica, permanente tra le ferraglie della modernità nei
cui interstizi sembrano appassire i sentimenti, le speranze, i
sogni.
Dai “quattro veneti notevoli” - don Walter Pertegato, suo primo
direttore; Cesare Marchi, letterato e poligrafo, cultore
insuperato del buon italiano; Antonio Grigolini, allevatore di
pulcini ed editore la cui vita ad un certo punto s’incrociò con
quelle di Berlusconi, De Benedetti e Caracciolo; Sergio Saviane,
giornalista di costume (ma fu molto di più) dell’Espresso
e scrittore corrosivo, ma uomo fondamentalmente buono -
Lorenzetto passa a descriverne molti altri, sconosciuti ai più,
che hanno illustrato la sua terra come Anna Benedetti,
protagonista della storia più toccante del libro, mamma di Lucy,
bimba affetta da una gravissima malattia che non sarebbe mai
nata senza il coraggio, la forza, la “luce” interiore di chi la
stava mettendo al mondo. I veneti descritti, come fa capire
l’autore, non sono “leoni che sbranano”, ma che “combattono”,
rinnovando il carattere di un’antica “nazione” che nel corso dei
secoli non ha mai smesso di dare all’Italia un bel po’ di quel
che aveva, a cominciare dalla sua gente generosa e pietosa. I
veri pilastri su cui si fonda il coraggio.
1 ottobre 2010
Il prezzo della
vanità secondo Lorenzetto
di ALBERTO ALFREDO TRISTANO
La giusta distanza è la regola aurea di ogni osservazione.
Restringere il campo, o ingrandirlo, procedere per dettagli,
oppure mantenere visione larga dove conta la proporzione e più
ancora la prospettiva. Perché conta il come oltre che il cosa
descrivere. Prendete per esempio i personaggi, la gente di cui
la gente parla, i vip, «le icone», le facce del dibattito
pubblico. Insomma: loro. Giulio Andreotti, uomo di mondo, che il
mondo amava vivere almeno quanto raccontare, raccolse in
ritratti molti dei personaggi incontrati testimoniando fin dal
titolo di averli Visti da vicino. Qualcosa tra la
confidenza, il sussurro rubato, il particolare che si fa indizio
di tutta una figura: una prossimità discreta e complice, una
punta aculea usata per stuzzicare più che per fustigare. Stefano
Lorenzetto, giornalista, «il più grande intervistatore d’Italia»
a detta di molti colleghi da Giovanni Minoli al compianto Pietro
Calabrese, porta in libreria una sua galleria, meno vasta della
pinacoteca andreottiana, per la quale ha proceduto esattamente
all’opposto del Divo Giulio: i suoi tipi sono Visti da
lontano (Marsilio, 2011, pp. 345). Mantenendo un distacco,
certo non antipatizzante ma nemmeno programmaticamente
affettuoso, verso coloro ai quali pone le domande. Memore di una
frase che qua e là torna nel libro, detta da Walter Lippmann,
firma dell’Herald Tribune, tra i grandi columnist del
giornalismo americano: «Se vuoi essere un giornalista
indipendente, non devi conoscere il presidente».
Ecco, Lorenzetto i suoi personaggi non li conosce ma li va a
conoscere per poi diagnosticarli in forma giornalistica,
scegliendo un punto di vista quasi scientifico: stabilire dietro
la celebrità quale sia «il prezzo della vanità», come recita il
sottotitolo. Vanità, o anche hybris, concetto che già gli
antichi greci formalizzarono per intendere l’oltraggio, la
superbia rispetto agli dèi, e che tutt’oggi viene utilizzata in
campo medico per una sindrome che si configura come
«intossicazione da potere». Perché dal potere a non farsi
logorare - per ritornare all’Andreotti - occorre ben dura pelle.
Sosteneva Luciano Bianciardi in La vita agra che «il
metodo del successo consiste in larga misura nel sollevamento
della polvere». E così nella grande nuvola di riflettori e
titoli di stampa in questa Italia 2011 Lorenzetto estrae un
pugno di nomi di ambiti diversi, da sottoporre al suo personale
tabellario della fama. Alcuni personaggi scavano una miniera di
aneddoti, e in questa lista metteremmo Oliviero Toscani, capitan
fracassa della fotografia, anti-comunista, anti-fascista,
anti-tutto, col «sogno di dirigere la Repubblica», anche
perché lì hanno «imparato dalla rivista Colors diretta da
me»; Roberto D’Agostino, sacerdote di Dagospia, che ha
piantato crocifissi ovunque, da quello gigantesco di Damien
Hirst sulla rampa di scale della casa-redazione all’altro
tatuato sulla schiena dopo essere stato salvato in extremis da
una broncopolmonite: «Non volevo andare al Divino amore, mi sono
fatto incidere nelle carni la croce»; o Enrico Mentana, il
giornalista più noto d’Italia, laudatore del direttore più
invisibile della storia, Emilio Rossi del Tg1, «e non perché mi
assunse in quota al Psi», ma perché «era un “civil servant”
dell’informazione, esercitava il potere per spirito di
servizio». Altri francamente hanno ben poco da dire, per
inconsistenza spiccano le ministre Brambilla e Gelmini, meglio
la Carfagna, se non altro perché sembra liberarsi del suo
complesso dell’avvenenza se confessa che sì, tutto sommato «ai
miei nipoti un giorno potrò dire: guardate quant’era bella
nonna».
La galleria si chiude con un’intervista che scappa all’ordine
alfabetico, un pezzo fuori sacco, con Maria Romana De Gasperi e
tutta centrata su suo padre Alcide, fondatore della Democrazia
cristiana e uomo della ricostruzione post-bellica. Lui sì
davvero visto da lontano, morto nel 1954 in un’Italia tutta
diversa. Un profilo che per il cattolico osservante Lorenzetto
appare assai di più che una nostalgia, ai tempi correnti.
22 ottobre 2010
Veneto: alle
origini della vitalità
di MARZIO BREDA
Da quando negli anni Ottanta l’Italia si accorse che certe
spinte protoleghiste erano destinate a mordere imponendo
un’inedita «questione settentrionale», sul Veneto cominciarono a
scaricarsi risentimenti mai visti prima. Il catalogo dei luoghi
comuni - giocati su preti, alpini, cameriere e contadini bigotti
e servili - passò dal vecchio registro benignamente caricaturale
a formule sempre più incattivite. Il simpatico «polentone», più
o meno tonto di natura o rintronato dall’alcol, come l’hanno
tramandato film e tv, e adesso marchiato come rancoroso,
xenofobo e avido. Accecato da una ricchezza che non sa nemmeno
godersi, essendo culturalmente indigente e infatti, si osserva,
non continua forse a parlare dialetto? I veneti sono insomma
diventati, più che antipatici, ormai malati e inclini a ogni
violenza e scelleratezza. E alla loro terra è assegnata la
definizione di «deserto morale».
«Colpa di una visione del mondo capace di concentrarsi solo sui
soldi e sul lavoro», è stato ripetuto da chi ipotizza che tra le
Dolomiti e l’Adriatico si sia prodotta una versione caotica,
brada e inumana, dell’ultraliberismo. Tale da modificare
addirittura il profilo antropologico di quella che una volta era
gente amabile e aperta, come dissero i cadorini nel 1420, il
giorno in cui scelsero di farsi governare dalla Serenissima:
«Eamus ad bonos venetos». Ora, se pure c’è del vero anche in
alcune delle diagnosi più severe, il risultato di tanta
contrapposizione sospesa tra realtà e retorica strumentale è che
si sono esasperate le incomprensioni e le distanze con il resto
del Paese. Nel tentativo di ridurle, Stefano Lorenzetto ha
riunito in un libro, Cuor di veneto. Anatomia di un popolo
che fu nazione (Marsilio, pp. 304, € 19) una serie di storie
che fanno piazza pulita di molti pregiudizi e moralismi. E che
aiutano a capire la rivoluzione avvenuta nel Nordest.
Pagine nelle quali il giornalista veronese fa parlare persone
famose o ignote, ma tutte memorabili, le cui vicende sono in
grado di correggere i più tenaci stereotipi, gratificando nel
contempo l’autostima dei veneti. Il lavoro è uno dei temi
ricorrenti delle 25 interviste. Ma, ed è la prima sorpresa, il
lavoro qui non risulta inteso secondo la maledizione biblica che
accompagnò la cacciata dal Paradiso terrestre: «Uomo,
guadagnerai il tuo pane con il sudore della fronte». No, per chi
si racconta nel libro il lavoro non è né una punizione né un
dovere, «è il senso stesso del vivere». Uno scatto, laico e
quasi alienante, della mistica che i manovali cattolici di
Vicenza cantavano nell’Ottocento: «Nell’officine, sull’arse
glebe, / noi lavoriamo lieti e contenti / non come suole torbida
plebe / che l’aure assorda d’insani accenti: / fidi operai
dell’Evangelo / noi, lavorando, pensiamo al cielo». Si spiega
così il marchio di «cinesi d’Italia» affibbiato ai veneti, per i
quali, sì, «il lavoro stanca, ma il senso d’inutilità uccide».
E uno di questi «cinesi» è il medesimo Lorenzetto, stakanovista
felice. Rallentare con lo slow work? Impensabile, per
l’autore di Cuor di veneto. Che estremizza le sue tesi
rammentando provocatoriamente il valore della povertà vissuta,
scriveva Jean Giono, come «lo stato della misura». Ed eccolo
sterilizzare la parodia dei «polentoni» intolleranti ed egoisti
attraverso la parabola di Massimo Colomban, l’imprenditore di
Permasteelisa (4.500 dipendenti), ritiratosi in un castello, che
ha regalato la sua azienda da 2.000 miliardi di fatturato ai
propri manager. O dare la parola ad Angelo Bonfanti, padre di
una cooperativa che cura i matti con il lavoro, guarda caso, e a
quanto pare funziona.
Figure che, più di tanta sociologia improvvisata, diradano certi
malintesi sul Veneto di oggi e lasciano capire la genesi di una
vitalità antica e quasi barbarica e che ora si intensifica con
un effetto moltiplicatore nel successo. C’è il grande fotografo
di Venezia Fulvio Roiter e Eugenio Benetazzo, il Beppe Grillo
dei poveri che insegna come salvare i risparmi nel Titanic
Italia. C’è uno strepitoso «ultimo cicisbeo» Tinto Brass, che
rinnega tutte le rivoluzioni «tranne quella sessuale» e scherza
sul proprio epitaffio: «Fu vera gloria? Ai posteriori l’ardua
sentenza». E, ancora, il nuovo Marco Polo, il cercatore di ossa,
il capo dei Serenissimi che espugnarono San Marco, il decano dei
gondolieri, il mastro vetraio, il «beato fra le donnine» (Milo
Manara) e tanti altri.
Alla fine il ritratto della Regione, secondo Lorenzetto, è
questo. Contraddittorio, magari, e però incontestabilmente
veridico. «I veneti che mugugnano ma sgobbano, che protestano
contro la rapacità dello Stato ma pagano le tasse, che sognano
l’indipendenza ma non si appellano a vallate in armi, che si
mostrano sospettosi con gli stranieri ma ne accolgono più di
qualsiasi altra Regione dopo la Lombardia, che non sono ancora
pronti a fondere il bianco col nero ma continuano a mandare i
missionari in Africa, che sembrano aridi ma vantano
un’impressionante fioritura di opere buone, che tirano su
capannoni ma si struggono di nostalgia per le ville palladiane,
hanno ancora quest’enorme fortuna: di ricordare da quali
sacrifici è scaturita la loro ricchezza e di vivere come se
l’incantesimo potesse rompersi da un momento all’altro».
2 ottobre 2010
Un paraplegico è
il Nettuno dell’Atlantico
di FERDINANDO CAMON
Sono 25 ritratti di personaggi noti o sconosciuti, ma tutti
memorabili. Il più memorabile è Andrea Stella, paraplegico da
quando gli hanno sparato quattro colpi di pistola in Florida,
drogati che volevan rubargli l’auto. Da allora sta in
carrozzina. Pareva destinato a una mezza vita. E invece vive una
super-vita. S’è costruito un catamarano di 17,5 metri,
attrezzandolo in modo che sia governabile da paraplegici, ha
compiuto la traversata dell’Atlantico, e da allora la sua vita è
una sequenza d’invenzioni e audacie. Alla domanda: «Cosa può
fare un paraplegico?», risponde: «Tutto». E all’altra domanda,
più crudele: «Cos’è stata per lei l’aggressione che l’ha reso
paraplegico, una disgrazia?», risponde ridendo: «Fortuna. Ho
conosciuto un mondo che mi ha migliorato». Grande, di una
grandezza prometeica.
Grande, ma di una grandezza zen, Massimo Colomban: vive a Cison
di Valmareno (TV), in un castello sterminato, che contiene un
hotel, un centro benessere, tre teatri, quattro sale congressi,
due ristoranti, otto bar. E sette ascensori. Lui lo paragona al
castello di Ludwig. Ma non è per questo che sta nel libro di
Stefano Lorenzetto Cuor di veneto. Colomban era il
padrone della Permasteelisa, 4500 dipendenti, 2 mila miliardi di
lire di fatturato, e che ne ha fatto? L’ha regalata ai suoi
manager. Lui era il «sarto dei grattacieli», cuciva addosso ai
grattacieli del mondo vestiti di vetro e metallo. Perché l’ha
regalata? Perché la vita si divide in tre fasi: fino ai 25 anni
s’impara, fino ai 50 si fa, fino ai 75 s’insegna, «nel senso che
bisogna passare a qualcun altro la propria esperienza ». Tra i
padroni del mondo, cercate un altro come lui. Non c’è.
Questi 25 personaggi «eccezionali » appartengono al Veneto (come
l’autore, veronese, giornalista del Giornale e
collaboratore di Panorama), e compongono un Veneto
«eccezionale ». Ma tutti sforano la dimensione regionale, e
assurgono a una rilevanza nazionale o ultra. Eugenio Benetazzo è
un operatore di Borsa indipendente, insegna come salvare i soldi
in tempo di crisi, ed è convinto che
globalizzazione=sodomizzazione. Angelo Bonfanti ha creato una
cooperativa dove fa lavorare i matti, quelli che noi chiamiamo
matti: stavo per scrivere «li cura», ma lui non s’illude di
guarirli, si accontenta di portarli al loro livello di
normalità. Carla Corso è la prostituta che lo fa per i soldi
(perché, le altre no?), e alla domanda: «Se sua figlia volesse
fare la prostituta?», risponde onestamente: «Ci penserei un
attimo» (forse un attimo non basta).
Ci sono i nostalgici della Serenissima: Flavio Contin, uno
dell’assalto al campanile di San Marco; Stelvio Costantini,
decano dei gondolieri; Ranieri da Mosto, che tiene i conti di
quanti soldi deve restituire la Francia al Veneto per le ruberie
di Napoleone (dice: 1033 miliardi di euro. Li vuole da Sarkozy).
Witige Gaddi, il marinaio che tiene il capanno della laguna di
Grado dove sostavano Hemingway, Romiti, Polanski, Baggio, e
tanti altri, lui dice «perché non si paga». Milo Manara svela
una tristezza che non m’aspettavo, alla domanda: «A cosa serve
il sesso?», risponde: «Alla riproduzione; ma oggi io mi trovo
nella situazione di Jack Nickolson, quando diceva: sto bene, ma
giocano a bowling nella mia corsia e vedo i birilli cadere
intorno ame».
È complicato citarli tutti, Fulvio Roiter immenso fotografo di
Venezia, Gino Seguso maestro vetraio di Murano, Giulio Tamassia
che si finge Giulietta e da Verona risponde alle lettere del
mondo eccetera. Vengono fuori migliaia di misteri sul Veneto.
Io, che vivo qui, non li conoscevo. È tutto nuovo, anche per me.
La specialità del popolo veneto è una premessa alla sua
separatezza? Cito un aneddoto, che forse anche Lorenzetto
conosce. Quando era in atto l’assalto dei Serenissimi al
campanile di San Marco, per stanarli fu mandato un carabiniere
meridionale, in collegamento-radio col suo capitano. Ordina:
«Alt!», «No sparè no sparè», invocano quelli; «Capitano, sono
greci», informa il carabiniere, e poi: «Mani in alto!», «Ghémo i
cai ’nte ’e man», «No capitano, sono tedeschi». Il Veneto
patisce questa incomprensibilità, che lo rende misterioso, buio
e disprezzato. In quel mistero, in quel buio Lorenzetto s’aggira
con occhiali a infrarossi. E vede tutto.
2 ottobre 2010
Il Cuor di
veneto batte di lavoro
di ALBERTO ALFREDO TRISTANO
Cuor di veneto, stazza da ciclope. Stefano Lorenzetto è un
grande, grosso artigiano del più intimo e immediato fra i generi
giornalistici: l’intervista. E proprio sull’impalcatura delle
proprie domande e delle altrui risposte ha eretto lo speciale
record assegnatogli dal Guinness World Records per la più
longeva serie di interviste da una pagina intera, conquistato
attraverso quella sorta di saga popolare (per lo più padana, in
verità) realizzata nelle ultime cinquecento e più domeniche per
la rubrica “Tipi italiani” del Giornale.
I tipi italiani sono persone che ci stanno intorno: gente di
affermata, modesta o nulla celebrità, che ci offrono la notizia
forse più importante: la loro vita. Perché la ordinarietà non
vuol dire mediocrità, e molti di quelli che sui giornali non ci
finiranno mai, meritano diecimila battute di racconto che ne
fissi l’immagine di eccezioni nella vasta regola dell’anonimato.
Lorenzetto corre lungo l’asse dei suoi tipi per tracciare una
galleria di conversazioni (Cuor di veneto, Marsilio, pp.
302) tenute assieme - come indica il titolo - da un tratto
anagrafico ma più ancora identitario: gli intervistati son tutti
figli del Leone di San Marco. Come un mosaico si compone di
tessere, Cuor di veneto si compone di veneti. C’è il
regista, c’è il giornalista, c’è il fotografo, il secessionista,
la puttana, il precettore, il medico, l’attore. Personaggi più o
meno noti di una «regione che fu per oltre un millennio una
nazione indipendente, la repubblica in assoluto più longeva fra
quelle costituite nel corso dei quattromila anni narrati sui
libri di storia». Orgoglio, appartenenza, ma anche alterità di
un popolo, «il suo misoneismo, il suo sentirsi sempre e comunque
un provinciale fuori posto, il suo disagio sociale che scivola
nella vergogna: per la léngoa che gli altri percepiscono
come dialetto, per le parole prive delle doppie, per la cadenza
cantilenante».
La lunga storia di fasti, povertà, turbo-sviluppo, autonomia,
leghe, beghe, dialetto, peccati e santità che appartiene al
Nord-est (quello che «recita bilanci come rosari», sintetizzò
efficacemente Giorgio Lago) tambureggia nelle biografie in forma
di interviste che Lorenzetto mette in fila. Ma più di tutte
raccoglie l’anima del libro quella conversazione che l’autore
pone a principio di tutte, camuffandola sotto forma
d’introduzione. È la conversazione che Lorenzetto intrattiene
con se stesso, riversandola in un fiume di parole (una
cinquantina di pagine), restituendo il senso della fede in quel
vangelo civile che si chiama lavoro e che Lorenzetto attribuisce
a sé e ai suoi.
Con un certo gusto si scorrono passaggi come: «È sabato e sto
lavorando. Domani farò lo stesso. Sarebbe peccato, lo so. Ma il
precetto festivo contempla il giusto svago e non è colpa mia se
l’unico hobby che coltivo è questo, il lavoro». «Tempo libero
non ne ho e non saprei che farmene. Ho lavorato la vigilia di
Natale e, lo stretto indispensabile, anche a Natale, dopo la
messa dell’aurora delle 7.30». «Lavorerò anche a Pasqua, il
lunedì dell’Angelo, il 1° maggio - che è la mia festa - e a
Ferragosto. Ora che ci rifletto, mi sposai un 30 aprile proprio
per approfittare della pausa lavorativa del 1° maggio». Il
viaggio di nozze fu al Lido di Venezia, «120 chilometri da casa,
fino al 2 maggio. Il 3 ero di nuovo al giornale».
Insomma, il cuor di veneto ci sembra di capire a chi appartenga:
a lui, allo stakanovista dalle mille tastiere e dalle comode
poltrone. Del perché poi Lorenzetto intervisti Lorenzetto
(omettendo le domande e raccordando le sole risposte), la
ragione è solo una, ci pare: evidentemente in giro non c’è
nessuno bravo a chiedere come lui. Funziona come per certi
sarti: i vestiti se li tagliano da sé.
24 settembre 2010
Leggere
Lorenzetto e scoprire che
ha un grosso problema: non beve
di CAMILLO LANGONE
Stefano Lorenzetto ha un problema. Forse non è elegante
rivelarlo ma credo che nascondere la testa sotto la sabbia, come
fanno gli struzzi, serva soltanto a incancrenire le situazioni.
Insomma lo dico: purtroppo Lorenzetto ha il problema del non
bere. Lui magari negherà, come le anoressiche negano di non
mangiare. Ma secondo me, mi dispiace dirlo di una persona che
stimo moltissimo, non beve, o almeno non beve seriamente. Me ne
sono accorto leggendo il suo Cuor di veneto (Marsilio) che
comincia con oltre quaranta pagine di elogio del Popolo Veneto
Lavoratore ed è innanzitutto un autoritratto perché l’autore
veronese esordisce con l’esibizione del giornalista stakanovista
(“Ho lavorato la vigilia di Natale e, lo stretto indispensabile,
anche a Natale, dopo la messa dell’aurora delle 7.30. Lavorerò
anche a Pasqua, il lunedì dell’Angelo, il 1° maggio e a
Ferragosto”) e prosegue raccontando di essere stato un
quattordicenne lavoratore, figlio, fratello, nipote e pronipote
di grandissimi lavoratori.
Ora mi dico, uno che lavora così tanto quando lo trova il tempo
per farsi una bottiglia con gli amici? Qualcuno potrebbe pensare
che beva in casa, mentre scrive, alla maniera di Hemingway e
mia, ed è qualcuno che non ha letto il libro perché Lorenzetto
racconta con dovizia di particolari la sua giornata di
articolista incontinente senza mai accennare a un prosecco o a
un bardolino, nemmeno di sfuggita. Elenca tutti i ferri del
mestiere, i mezzi di produzione passati e presenti, le macchine
da scrivere con cui ha cominciato e poi i computer, le tastiere,
perfino le poltrone: e le grappe? Non le cita per il semplice
motivo che va ad acqua. Chi l’avrebbe detto, una penna così
felice. Non mi stupisco affatto che gli manchi la lucidità
necessaria (in quelle condizioni io ragionerei anche peggio) per
rendere Cuor di veneto quello che Cuor di veneto doveva e
poteva essere: un formidabile sostegno alla causa veneta. Non
all’autore ma al maledetto vizio dell’analcolismo attribuisco la
responsabilità di un libro che senza volerlo danneggia
l’immagine di un popolo già abbastanza incompreso e vilipeso.
Proclami come “non l’Italia, ma il Veneto, è una repubblica
fondata sul lavoro” non fanno altro che approfondire il solco
tra regione e nazione. Affermazioni come “il lavoro non è
nemmeno un dovere, per noi veneti: è il senso stesso del vivere”
rischiano di scatenare l’antivenetismo di legioni di
disoccupati, pensionati, studenti scaldabanchi e impiegati
pubblici. A un certo punto, forse per abuso di Levissima o San
Pellegrino, i veneti vengono definiti “i cinesi d’Italia”: ci
mancava solo questa, i cinesi non li può soffrire nessuno,
paragonarsi a loro significa consegnarsi al ludibrio perpetuo.
Le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni e che
queste fossero più che buone, ottime, lo dimostra l’intervista a
Flavio Contin, il capo dei Serenissimi che nel 1997 occuparono
il campanile di San Marco: un capitolo che renderebbe
secessionista anche Giorgio Napolitano, se soltanto lo leggesse
e non avesse la costituzione al posto del cuore.
C’è un momento in cui Lorenzetto sembra essersi fatto almeno uno
spritz ed è quando scrive con percepibile commozione della
Repubblica di San Marco “con i suoi martiri fucilati, il suo
vessillo calpestato, le sue insegne lapidee scalpellate via a
una a una dai muri degli edifici storici, i suoi altari
profanati, i suoi santi patroni bruciati, i suoi palazzi
depredati, i suoi dipinti e i suoi incunaboli trafugati, i suoi
beni confiscati da quell’esercito di rivoluzionari francesi…”.
Ma l’effetto dura poco perché, ormai lo avete capito, c’è di
mezzo il problema del non bere, o del non bere abbastanza, o del
bere troppo di rado. Io mi domando che cosa potrebbe diventare
Lorenzetto se riuscisse a uscire dal tunnel della sobrietà ed è
una domanda retorica perché la risposta ce l’ho qui pronta:
diventerebbe il nuovo Sergio Saviane.
24 settembre 2010
Il popolo che ha
corretto Cartesio
di SILVIA GUIDI
Si fa presto a dire Nordest, scrive Stefano Lorenzetto nel suo
ultimo libro, Cuor di Veneto, anatomia di un popolo che fu
nazione (Venezia, Marsilio, 2010, pagine 304, euro 19). Si
fa presto a liquidare una realtà complessa a colpi di slogan,
imboccando le scorciatoie dei luoghi comuni, scambiando il
profondo nord italiano con la sua caricatura televisiva,
ottenuta davanti ai tribunali improvvisati sotto i riflettori
come in un’ordalia tribale. «La realtà non è mai piatta e
banale, se le si concede sufficiente tempo e attenzione» ha
detto proprio in questi giorni lo scrittore canadese Michael
O’Brien, e la banalità è negli occhi di chi guarda, lascia
capire l’autore.
Per questo Lorenzetto — uno dei giornalisti italiani più abili e
raffinati nella difficile arte dell’intervista — stavolta
interroga se stesso, usa la propria storia come campione
statistico sui generis per aiutare il lettore a capire qualcosa
della «veronesità», e riflette su quella strana «droga che ha il
sapore di una medicina», che non porta a spendere soldi ma a
guadagnarli.
«È sabato — scrive Lorenzetto — e sto lavorando. Domani farò lo
stesso. Se davvero la finalità del lavoro è quella di guadagnare
il tempo libero, come pensava Aristotele, ho fallito il mio
scopo»; evidentemente laboro ergo sum ha sostituito il
cogito cartesiano se in vacanza ci si sente «vacui», vuoti,
perché si sperimenta il terrore di non esistere. «A pensarci
bene — scrive Lorenzetto — il lavoro non è nemmeno un dovere per
noi veneti: è il senso stesso del vivere. Solo attraverso il
lavoro i veneti stabiliscono le connessioni con la realtà. Una
forma espressiva, dunque. Gli schei, più che una
gradevole conseguenza del lavoro, sono la misura del valore
individuale. Feliciano Benvenuti (...) diceva al mio amico
Sandro Boscaini, produttore dell’eccelso amarone Masi: “El
veneto el vòl savèr far, prima de far savèr”».
Alternando aneddoti familiari e «chiacchiere da bar», cronaca
spicciola e storia con la s maiuscola, dalla disavventura veneta
di Goethe — nel 1786 a Malcesine venne scambiato per una spia e
rischiò di essere messo in prigione — al pettegolezzo ascoltato
dal salumiere sotto casa, Lorenzetto descrive con ironia e
affetto «un popolo che fu per 1.100 anni nazione», in grado di
diagnosticare con lucidità le proprie malattie: pecunia si
uti scis ancilla est, nescis domina («il denaro se lo sai
usare è servo, se non lo sai usare è padrone») ammonisce
un’antica scritta scolpita su Palazzo Franchini.
15 giugno 2009
Se la medicina è
un’opinione
di ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI
Per primo viene l’autore, Stefano Lorenzetto, capace e brillante
giornalista scrittore che, con una narrazione limpida e grande
padronanza del mestiere, velocemente «stana» i protagonisti
delle sue interviste - in questo caso ben ventitré luminari
della medicina -, li racconta e li fotografa cogliendone il
messaggio con la massima chiarezza. Un vero mattatore, insomma,
una vecchia volpe dalla quale non si vorrebbe essere
intervistati nel caso si avesse qualche sia pur piccola cosa da
nascondere.
Poi vengono i luminari che in Si ringrazia per le amorevoli
cure prestate, pubblicato da Marsilio (pp. 301, € 18),
raccontano di sé, della loro missione e delle loro teorie
mediche. Tra i ventitré che l’autore ha fatto parlare figura un
po’ di tutto: ci sono dei veri santi, ma forse anche l’uno o
l’altro santone, dei sognatori ma anche dei concretissimi
amministratori della salute, degli eroi, probabilmente, ma anche
dei normalissimi, diligenti lavoratori.
Infine - ed è qui che comincia il problema - ci sono i lettori.
I quali, sia quelli ingenui che quelli smagati, rischiano di
trovarsi, a libro chiuso, nella condizione di non saper più a
chi dare retta. Le teorie esposte con straordinaria passione dai
vari medici - tutti o quasi tutti allievi, quando non
addirittura docenti, di prestigiose università americane oltre
che spesso presenti sulle più autorevoli riviste mediche del
mondo - sono, infatti, non raramente, in contraddizione tra
loro. Soprattutto per quel che riguarda le più diffuse e temute
malattie dei nostri giorni: è cioè cancro e depressione.
Più d’uno sono infatti gli oncologi intervistati, e dove uno -
di gran nome come, del resto, anche gli altri - giura
esclusivamente sulle cure tradizionali e dunque su chirurgia,
radio e chemioterapia, altri puntano, con teorie anche molto
convincenti e forti di un gran numero di casi risolti, di
malati, cioè, dopo molti anni ancora vivi e vegeti, su
antidifterici o addirittura battericidi.
Che farà allora un lettore con un familiare sofferente di
cancro, oppure finito egli stesso nello sterminato numero dei
pazienti oncologici? Come si orienterà, a chi si affiderà?
Non meno complesso appare il panorama per chi è affetto da
attacchi di panico, ansia e altre forme di depressione. A
seconda che il luminare sia neurologo oppure psicoanalista, ci
sarà chi, per lo stesso malessere, raccomanderà buone dosi di
medicinali e chi, invece, sane (e numerose) sedute di
psicoanalisi. Lì per lì il lettore, convinto dalla convinzione
di ciascun terapeuta, non potrà che via via sposare le diverse
tesi, salvo poi, arrivato in fondo alle pagine, non sapere più
che pesci pigliare.
Poi ci sono i medici - si sa, molto ricercati di questi tempi -
che curano i disordini alimentari, che si ingegnano, cioè, a far
dimagrire ciccioni e ciccione, inducendoli a cambiare dieta. E
anche tra loro è difficile trovarne due che la pensino alla
stessa maniera: c’è chi è promotore del digiuno totale (non più
di una decina di giorni, sennò si può morire), chi di un regime
composto soltanto da frutta e verdura e chi invece, al grido di
«la dieta mediterranea è una solenne boiata», caldeggia le virtù
del burro, del lardo e dello strutto, in quanto il tasso di
colesterolo nel sangue niente avrebbe a che vedere con i grassi
animali.
Ridateci, verrebbe da dire al lettore, i nostri vecchi medici
condotti, magari di provincia o di campagna, che navigavano a
buon senso e che per far dimagrire uno gli dicevano «mangia
meno» e quando un anziano ammalato rifiutava cibo e acqua non lo
spedivano in ospedale per attaccarlo a sonde e sondini, ma lo
lasciavano a casa e ai familiari dicevano: è finita la
benzina... E doppiamente verrebbe da invocarli perché
difficilmente mescolavano la politica alla medicina mentre
qualcuno di questi grandi famosi la chiama in causa, tanto che
l’eventuale paziente, già avvilito e forse frastornato
dall’infermità potrebbe anche chiedersi:ma unmedico di destra
curerebbe con spassionata dedizione un paziente di sinistra e
viceversa?
Se poi si pensa che esistono (non in questo libro) anche medici
come quelli attualmente sotto processo per gli «abusi chirurgici
» commessi nella clinica milanese di Santa Rita (che nel
frattempo ha cambiato nome) il disorientamento non farebbe che
aumentare.
6 giugno 2009
Intervista con
Ippocrate
(o ciò che ne resta),
a cura di Stefano Lorenzetto
“Si ringrazia per le amorevoli cure
prestate”. La frase di circostanza da necrologio è diventata il
titolo dell’ultimo libro di Stefano Lorenzetto. Pubblicato da
Marsilio (304 pagine, 18 euro, in libreria dal 10 giugno) si
occupa di “medici malattie malesseri” ed è aperto da una
prefazione di Lucetta Scaraffia, la quale si augura che “grazie
a questo libro, forse, saranno migliori i medici che ci
cureranno”.
La frase di circostanza diventata titolo allude alla routine di
una medicina dalla quale ci si aspetta moltissimo, sempre di più
(ci si aspetta qualcosa di molto vicino all’immortalità, ormai)
e che invece è destinata a tradire, a deludere, a fallire, a
mostrarsi inefficace, tanto più se pretende di essere
onnipotente e se si riduce a sola tecnica. Ma che è tanto più
efficace e benemerita quanto più riesce a essere arte, non
soltanto scienza, quanto più si rifiuta di dimenticare l’unicità
dell’essere umano che ha di fronte. Lorenzetto, editorialista
del Giornale e firma di Panorama, narratore
pirotecnico di fatti e “tipi italiani”, e formidabile
intervistatore (anche questo suo libro è fatto di interviste)
spiega subito per quali importanti motivi il mondo della
medicina lo attira, da sempre. È per via delle circostanze della
sua stessa nascita, segnata da un lungo combattimento per
sopravvivere contro una meningite che lo colpì a cinque giorni,
dopo essere nato in casa (“uno degli ultimi italiani” a cui sia
successo: Lorenzetto è del 1956, e già la clinica e l’ospedale
stavano diventando gli unici luoghi deputati al parto). Quella
lotta per sopravvivere fu vinta dopo due mesi, passati nello
stesso ospedale di Borgo Trento dove si consumerà per Lorenzetto
anche l’iniziazione di giovanissimo cronista alla banalità della
morte, per chi (medici e infermieri) è costretto a frequentarla
quotidianamente, per mestiere.
“La morte è inevitabile; la maggior parte delle malattie gravi
non può essere guarita; gli antibiotici non servono per curare
l’influenza; le protesi artificiali ogni tanto si rompono; gli
ospedali sono luoghi pericolosi; ogni medicamento ha anche
effetti secondari; la maggioranza degli interventi medici dà
solo benefici marginali e molti non hanno effetto; gli screening
producono anche falsi positivi e falsi negativi; esistono modi
migliori di spendere i soldi che destinarli ad acquisire
tecnologia medico-sanitaria”: questa clamorosa doccia fredda non
è farina del sacco di un nostalgico dell’alchimia o delle
pozioni magiche. È quanto scriveva dieci anni fa, in un
editoriale, il direttore del British Journal of Medicine,
Richard Smith. Vale a dire il direttore della più influente
rivista accademica del mondo sulle politiche sanitarie, fondata
nel 1840 e arrivata fino a oggi con autorevolezza intatta. Ed è
con questo bagaglio di sano scetticismo – ma insieme di
consapevolezza di quello che, ragionevolmente, si può chiedere a
un medico – che Lorenzetto racconta, attraverso il dialogo con
medici (tradizionali e anche eretici), storie di ordinaria e
straordinaria sanità. Sapendo sempre che l’umanità è “un immenso
ospedale in cui ognuno sogna di stare nel letto dell’altro”.
Salvo scoprire che, in fondo, si può star bene anche nel
proprio.
5 giugno 2009
Lorenzetto indaga
il cuore dei medici
di CLAUDIO TOSCANI
La prima associazione suggerita dal titolo
di questo ulteriore libro di Stefano Lorenzetto (Si ringrazia
per le amorevoli cure prestate, Marsilio, pagine 304, euro
18,00), in cui il noto giornalista veneto approfondisce il suo
apprezzato rapporto personale con i medici e la medicina, è
indubbiamente la frase che nei manifesti funebri i parenti si
premurano, in genere, di far apparire in margine all’annuncio
della scomparsa della persona cara. Il più delle volte criticato
o messo sotto accusa, dubitato o sminuito più che compreso nel
suo umano limite professionale, in special modo se
l’ospedalizzazione o la degenza hanno avuto esito infausto, il
ruolo dei medici, come sottolinea la limpida e meditata
prefazione di Lucetta Scaraffia, mai come in questo momento è
motivo di dibattito poco sereno e ancor meno assentito.
Con il metodo dell’intervista, una buona ventina di medici, tra
dottori, professori, aiuti, primari o comprimari, si aprono alle
sue domande tra generali, personali o specialistiche, tali da
rendere impervio ogni resoconto dettagliato, vuoi per la stessa
quantità di risposte articolate e dialettiche, vuoi per la
vastità e la profondità degli argomenti trattati. Al punto che
ogni dialogo è al tempo stesso una dichiarazione di intenti
soggettivi, confidenziali e diretti, ma anche un ventaglio di
proposte, prospettive, correzioni o preferenze nei riguardi
dell’apparato sanitario nazionale. In presenza di una divorante
scientizzazione, da un lato, che spesso e volentieri si sposa al
business farmaceutico, e di una istintiva, inesatta,
culturalmente annebbiata visione del dolore che sarebbe sempre e
comunque da azzerare, i discorsi contenuti in questo libro
aiutano a ritrovare fiducia nella medicina e in chi la pratica:
persone, quest’ultime, nello loro stragrande maggioranza
cosciente della "missione", parola desueta ma di imperfettibile
significato umano e morale.
Nell’introduzione, Lorenzetto riassume al lettore la sua vicenda
personale, giusta preparazione ai testi presentati e a tutti i
temi degli incontri, che si riducono poi a un poliedrico
dibattito sulla vita e sulla morte (umanità e mistero) al tavolo
della salute: tra spunti di costume, ipnosi dei comportamenti e
delle mode, celebrazioni delle tecniche, profondità dei
sentimenti vissuti e affetti recisi, tragedie e scandali,
banalizzazioni o epifanie: nel senso di svalutanti rimozioni di
principi o, al contrario, di rivelanti esperienze esistenziali
che, proprio attraverso la malattia e la sofferenza, l’angoscia
e la privazione, dimostrano il valore e il merito, la dedizione
e la vicinanza, il "cuore" e la competenza di coloro ai quali
siamo comunque affidati (sia per la guarigione, sia per
l’estremo congedo). Se qualcuno ha fatto esperienza di medici
senza sensibilità, questo libro oppone invece abbondanza di
esempi di partecipazione al pathos universale di uomini e donne
in angustia fisica, psichica o spirituale. Perché curando il
corpo si cura l’anima; riconoscendo malattie o malesseri si
salva non solo il fisico ma anche la coscienza.
Essenziale il richiamo di Lorenzetto: confidate nei medici, non
altri che loro possono evitare il pericolo della raziocinante
arroganza di una sanità pragmatica, quando non affaristica, che
sembra volere vita o non vita secondo convenienza o ideologia,
tecnologia o sentenza: di rado per fedeltà al dono dell’esserci.
26 ottobre 2007
Un’indagine sulla
morte, il tabù
del nostro tempo
di MICHELE BRAMBILLA
Se vale il principio secondo il quale
nessuno può fare a meno di acquistare un libro che lo riguarda,
Stefano Lorenzetto venderà sei miliardi e seicento milioni di
copie della sua nuova opera. Sei miliardi e seicento milioni:
tante quanti sono gli abitanti della Terra. I quali, nessuno
escluso, dovranno prima o poi fare i conti con quelle «cose
ultime» di cui Lorenzetto si è occupato.
La morte, la «cosa ultima» per eccellenza, è davvero l’unica
certezza nel nostro futuro. Nella sola giornata di oggi - ci
dicono le statistiche - sessantamila nostri simili si
congederanno da questo mondo. Un mondo nel quale noi vivi -
voglio dire noi provvisoriamente vivi - non rappresentiamo che
un’esigua minoranza. Siamo più di sei miliardi, d’accordo: ma,
solo nei quattromila anni della storia che raccontiamo sui
libri, sono almeno cento miliardi i «colleghi» che ci hanno
preceduti.
Eppure non c’è evento più rimosso di questo. Strano: viviamo un
tempo in cui imperversano i futurologi d’ogni specie, ma
dell’unico appuntamento certo è proibito parlare. Superato, e da
un pezzo, quello del sesso, il nuovo tabù è la morte: tra gente
perbene non se ne parla. Per non pensarci ci riempiamo di cose
da fare. Addirittura pianifichiamo imprese di lungo termine
anche quando i nostri capelli si sono imbiancati da un pezzo. Ma
l’agenda è sempre meno ricca di pagine. Perché, nonostante i
progressi della scienza, poco o nulla è cambiato dai tempi in
cui il salmista scriveva: «Gli anni della nostra vita sono
settanta/ ottanta per i più robusti.../ passano presto e noi ci
dileguiamo». Settanta anni: venticinquemila giorni o poco più.
Fa specie veder definiti «giovani», sui giornali, i politici
cinquantenni: non restano loro che 7.300 giorni, 10.950 se
saranno tra i più robusti.
«Ci è capitata una curiosa avventura: abbiamo dimenticato che si
deve morire», ha scritto anni fa uno storico francese, Pierre
Chaunu. È una delle conseguenze della modernità. Abbandonata la
speranza religiosa, sperimentato il fallimento dell’utopia
positivista di sconfiggere quell’odiosa Signora, l’uomo non ha
trovato altra soluzione al problema che far finta che il
problema non esista. Discettiamo ogni giorno di politica, di
economia, di ecologia, di sociologia: tutte cose importanti, ma
che ci forniscono tutt’al più risposte sulle cose penultime, non
sulle ultime. Le «cose ultime» che un tempo la Chiesa chiamava
«i Novissimi»: morte, giudizio, inferno e paradiso. Questioni
ridicolizzate dai sapienti della nostra epoca, che sostengono di
parlare in nome della Ragione. Ma su simili temi l’unico
prodotto di questa «ragione» è stato il riempirsi di lavoro per
non ragionare: «Meglio oprando obliar senza indagarlo/ questo
enorme mister dell’universo», suggeriva il Carducci.
Lorenzetto ha avuto il grande merito di «oprar indagando». Ha
messo il suo talento di intervistatore al servizio di
quell’unica domanda davvero decisiva: c’è qualcosa al di là di
quella porta misteriosa? Il Tutto o il Nulla? Ha interrogato
uomini e donne che con il mistero della morte - e della vita: è
la stessa cosa - hanno scelto di mescolarsi ogni giorno, oppure
hanno dovuto fare i conti prima di quanto avessero desiderato.
Tra queste persone che Lorenzetto ha intervistato ce n’è una a
me cara, un’amica che ho frequentato nei miei anni comaschi. È
una signora di 105 anni, dalle ancora formidabili energie
fisiche e intellettuali. Si chiama Carla Porta Musa. Un
pomeriggio di un paio di anni fa, a casa sua, mi disse: «Io non
ho paura della morte. Come potrei? È la cosa più naturale che ci
sia». Eh no cara Carla: naturale è la vita, non la morte. La
morte, questa bastarda, è contro-natura, infatti noi non
l’accettiamo mai. Naturale è la speranza di infinito, la ricerca
di un senso, insomma il desiderio di vita. Quello che - come mi
riferisce un amico di Como - ha portato Carla Porta Musa, ieri
mattina alle 8, ad attendere l’apertura di una libreria per
essere la prima acquirente del libro di Lorenzetto.
La vita: è la vita, e non la morte, a urlare dentro ciascuno di
noi. Nel libro di Lorenzetto ci sono altri due miei amici
comaschi, Erasmo e Innocente Figini: due fratelli che hanno
lasciato che la loro esistenza venisse sconvolta da qualcosa di
più grande. Hanno aperto la loro casa a ottanta «figli»: trenta
vivono lì con loro, cinquanta sono in affido diurno. Chi glielo
ha fatto fare, se non la certezza che la vita non finirà sotto
un metro di terra?
I Figini hanno fede, sono cristiani, credono in quel solo Uomo
che - dicono - è tornato vivo dal regno dei morti. Lorenzetto
questa fede dice di non averla, ma di cercarla. Voglio sperare -
per lui e per noi tutti - che siano vere le parole che Blaise
Pascal dice di avere udito da Cristo stesso: «Tu non mi
cercheresti se non mi avessi già trovato».
26 ottobre 2007
Vita, morte e miracoli secondo
Lorenzetto
di RENATO FARINA
Stefano Lorenzetto racconta le ultime ore
del fratello, il suo cenno di saluto con le dita da dietro il
vetro, il cercargli invano la mano ancora tiepida quando era
stato smistato, avvolto in lenzuola come una mummia, in uno
sgabuzzino prima di essere trasferito all’obitorio. Si chiamava
Paolo.
Il libro Vita morte miracoli (Marsilio, pp. 272, euro
16) comincia così: non con la narrazione di una nascita, come
sarebbe logico, ma di una morte. Perché la vita è questa attesa.
Come prepararsi a questo (tra)passo? Alla morte nostra e a
quella delle persone amate, persino dei nostri figli? Sì dei
figli, e non si sta parlando di casi sventurati, ma della prole
che sperabilmente ci sopravvivrà. Perché bisogna pur dirselo: li
mettiamo al mondo, e non si scappa, finiranno lì, se va bene in
un letto, a centovent’anni, circondati da nipoti e pronipoti, ma
alla fine a tirare l’ultimo fiato e qualcuno li deporrà in
un’urna.
Eppure questo libro non è affatto macabro. Non c’è il culto del
teschio e delle ossa ma c’è l’idea forte che anche il dolore non
viene buttato via, e le tombe non sono il sigillo sul niente, ma
hanno una potenza di memoria che aiuta a vivere. Per questo -
confessa Lorenzetto - è diventato un collezionista di
pellegrinaggi nei cimiteri. A Parigi prima va al cimitero, al
Père Lachaise, poi pilucca più volentieri le ostriche. Senza
tradizione non siamo niente, senza cura della morte è illusorio
pensare di essere persone civili. Non vale la pena neanche di
avere appetito, se la morte è chiusa in se stessa, qualcosa da
dimenticare a forza. Realismo ragazzi. La morte c’è. Ma anche
nel defungere c’è qualche scintilla di luce. E Lorenzetto l’ha
rinchiusa nelle testimonianze che ha raccolto. È convincente?
Basti dire che non trucca le carte. È un cattolico, ma non esita
a prendere per le orecchie un augusto cardinale e a dir la sua
sui trapianti. Scrive: «La scienza medica è sempre più affamata
di corpi già formati, possibilmente giovani, da ridurre a cavie
per il prelievo di organi da trapiantare. (...) Si è considerati
defunti non quando il cuore si ferma, l’alito non appanna più
uno specchio, il corpo comincia a irrigidirsi, bensì in base a
una concezione di legge introdotta in Italia nel 1975, e poi
corretta nel 1993, che ha sovvertito la definizione di morte
riportata dai dizionari e ha accreditato il discutibile concetto
di “morte cerebrale”(...) È diventato lecito e persino
auspicabile con apposite campagne di propaganda svolte fin nelle
scuole primarie, che una persona in “morte cerebrale” sia
espropriata a cuore battente degli organi necessari alla
sopravvivenza di un’altra persona». E tira per questo
un’inaspettata scoppola all’eutanasia in funzione trapiantizia:
«Azzardo una tremenda previsione: i pazienti terminali, che in
un futuro sempre più vicino saranno autorizzati anche in Italia
a pretendere l’eutanasia con atto testamentario, avranno diritto
a una corsia preferenziale qualora decidano di offrire a scopo
di trapianto quanto di buono pulsa ancora nei loro corpi
malati».
Poi ecco le interviste. Ci sono personaggi straordinari. Qui
impariamo segreti a proposito di malattie rare e fecondazioni
artificiali, suicidio, sclerosi multipla, vitalità e coscienza
dei feti, coma vegetativo. Spesso a essere interrogati sono
medici. Lorenzetto non dimentica l’utilità profonda della
tristezza e della malinconia. «La tristezza è sacra». Eppure
quanta letizia attraversa le parole di gente in pena o che cura
persone affette da malattia senza rimedio. Non è una gioia
ottusa, ma - vorrei dire - razionale. Lorenzetto ammette: «Non
ho abbastanza fede, non credo fino in fondo alla resurrezione».
Però è stupito come un bambino da questa promessa: non è tanto
male questo mondo, e neanche la morte dev’essere così orribile,
se esistono davvero le persone che ha incontrato. In effetti
esistono, almeno tre di esse le ho incontrate anch’io. Una è
Stefano.
23 giugno 2006
Tante parole,
poco buonsenso
di GIORGIO DE RIENZO
Ogni tanto non ci farebbe male fermarci a raccogliere le nostre
piccole (residue) forze di pensiero per cercare di capire dove
stiamo andando così tanto in fretta e perché ci affrettiamo a
correre invece di rallentare il passo. Non c’è più spazio per un
pensiero forte e quello «debole» ci è ormai venuto a noia. Una
possibilità alternativa potrebbe essere intanto quella di
regredire nel buon senso, in attesa che qualcuno più dotato
arrivi a dispensarci la sua dottrina. Stefano Lorenzetto è un
giornalista che sa fermarsi e appunto nel suo Dizionario del
buon senso (Marsilio, pagine 245, euro 15) osserva il nostro
«paese irreale dall’A alla Zeta».
Piccole cose, per carità. Nulla di trascendentale. Magari anche
banalità: condite tuttavia di arguzia e grazia di scrittura. Un
esempio. «Abbiamo forzato la natura per ottenere ciò che la
natura non poteva darci». Ed ecco il melone a Natale, le fragole
d’inverno: sanno di poco ma ci fanno sentire ricchi. «Non
basterebbe mangiarle solo in primavera»? Forse le gusteremmo
meglio, ma non avremmo il senso di una primizia che non è tale.
«L’agricoltura è l’arte di aspettare», ma non «è roba per questa
società impaziente, ingorda», che ha perso il senso del tempo e
delle proprie stagioni.
Lorenzetto legge la realtà e dà la sua modesta sentenza con
pacata discrezione, che riesce tuttavia a graffiare. A Roma
muore di freddo una barbona che cercava di sopravvivere
accucciandosi, la notte, vicino alla porta della Radio Vaticana.
Passa qualche tempo e il direttore di quella radio ricorda la
povera senzatetto in una messa di suffragio. «Stavi alla nostra
porta. Ci aspetterai in cielo», dice serafico nell’omelia. Ed
ecco il commento secco: «Non era meglio farla entrare? Avrebbe
aspettato dentro». Il nostro mondo è forse troppo disattento. Si
innamora di belle parole, di gesti spettacolari e si dimentica
della realtà oppure lo fa apposta per cancellarla quando è
sgradita.
Ormai è un’abitudine ai grandi funerali pubblici: si applaude un
papa morto, si battono le mani al passaggio delle bare di
vittime della guerra o del terrorismo, ma anche di disgrazie
naturali o di orrendi omicidi. «Se la morte è “quiete solenne”,
come dice Manzoni, “morire per dormire, non altro”, scrive
Shakespeare nell’Amleto, è mai possibile che nessuno dei
presenti» a queste esequie eccezionali non «si renda conto che
un fragoroso applauso può soltanto disturbare il sonno»? Oppure
questo battere le mani non si riduce a un esorcismo per
cancellare la morte e passare ad altro?
Lorenzetto si fa particolarmente acuto quando fissa lo sguardo
nel «vizio di parola» che è tipico dei nostri giorni.
«Bisognerebbe che la riforma del codice penale contemplasse un
nuovo reato: l’abuso della parola», sostiene semiserio. Non si
tratta ovviamente di punire i chiacchieroni: quelli sarà
sufficiente non ascoltarli più di tanto. Si tratta di colpire i
«mestatori» che mutano significato alle parole, fino a far fare
a loro capriole «delittuose» o a svuotarle del loro senso.
Restiamo sul leggero, perché ad andar pesanti ci si potrebbe
fare male. «Deportazione» è una parola tristemente legata ai
campi di sterminio nazisti. L’«esodo» è quello biblico degli
ebrei dall’Egitto. Oggi anche chi subisce un banale sfratto è
«deportato» e c’è - e chi non lo sa? - l’«esodo» nei weekend,
con tanto di «controesodo» che non fu concesso invece ai giudei.
Ma forse non è necessario sperare in una drastica «decenza del
mutismo», basterebbe per il momento abolire l’uso della litote.
Lorenzetto segna, puntuale, una piccola vittoria inaspettata. La
trova con sorpresa nei quiz per la patente. «La “variazione
altimetrica” è tornata a essere un “marciapiede”. La
“intersezione con una subordinata” è stata felicemente
declassata a “incrocio”... La “cunetta” e il “dosso” hanno
finito di rappresentare “anomalie altimetriche concave e
convesse”». Si può dunque sperare, a patto di accontentarsi ben
inteso per ora del semplice buon senso.
26 maggio 2006
L’allegra parata dei luoghi
comuni
di MARIO CERVI
Ci vuole coraggio per scrivere un Dizionario del buon senso.
Il buon senso non gode di buona fama negli ambienti letterari
che contano, viene assimilato alla mediocrità, all’ovvio, al
banale, perfino al volgare. Gli è toccata la stessa sorte del
«perbenismo» e della «maggioranza silenziosa», insomma di tutti
quegli atteggiamenti e stati d’animo che sono condivisi da
milioni di brave persone, ma che suscitano nei fustigatori dei
costumi ire funeste.
Il buon senso vorrebbe che si preferisse avere a fianco un
Garrone, su un vagone della metropolitana in piena notte,
piuttosto che un Franti. Ma Umberto Eco ha sentenziato, con il
suo talento, che Garrone è odioso, e un coro di gente colta ha
assentito, viva Franti. Stefano Lorenzetto è d’altra pasta: e
nelle voci di questo suo Dizionario, edito da Marsilio,
passa al microscopio «il Paese irreale dalla A alla Z», ossia da
«adottare» a «Zurlì». Ogni lettera di questo itinerario,
apparentemente svagato e in verità molto oculato, offre
divertimento, informazioni, sorprese.
Tante volte ciascuno di noi si è soffermato su aspetti
grotteschi della quotidianità italiana, ma senza andare oltre.
Lorenzetto va oltre. Gli applausi ai funerali (una moda
risalente secondo lui al 1973)? «È una moda che s’iscrive
perfettamente nella preoccupazione di non alludere mai al
cordoglio. Infatti se scatta il battimano, significa che ci
troviamo ancora nei paraggi del varietà. Carràmba, che
sorpresa!». I personaggi finiti, per un qualsivoglia motivo,
sotto i riflettori della notorietà, non sfuggono alle attenzioni
di Lorenzetto: che quasi mai è iracondo, anzi ha molta
comprensione per le miserie umane, ma insomma la pazienza ha un
limite e lui non fa sconti. Il Dalai Lama viene in Italia, e il
puntiglioso autore del Dizionario gli addebita incontri
con D’Alema, Veltroni, Cofferati, D’Antoni, Larizza, Fini,
Tremaglia, Roby Baggio. Inoltre una cena a Milano con Marco
Tronchetti Provera e Ignazio La Russa e una esibizione al
Palalido seguita da «Sergio Cusani, Jovanotti, Ornella Vanoni,
Carla Fracci e altri cinquemila». Troppo per un asceta. Troppo
per chiunque.
Cambiamo totalmente settore. Il giudice Gennaro Francione del
Tribunale di Roma ha prosciolto quattro extracomunitari che
vendevano cd falsi, riconoscendo loro l’esimente dello stato di
necessità. Lorenzetto ha voluto saperne di più sulla personalità
di questo magistrato che si definisce «poliedrico artista ed
eclettico operatore culturale», che è pittore patafisico, che ha
dato alle stampe saggi come Domineddracula e De merda,
il secondo dedicato alla «fecacultura del poeta anarchico Raul
Karelia». Vorrei trascrivere tutte le note biografiche sul
dottor Francione - un capolavoro - ma ruberei troppo spazio alla
recensione, e troppo pepe alla vostra lettura. Sappiate che
Lorenzetto voleva intervistare l’insigne pensatore del De
merda, ma gli vennero imposte tali e tante condizioni -
Solzenicyn non se le sarebbe neppure sognate - che rinunciò.
Mi sono soffermato - procedo anch’io, nelle citazioni, per
ordine alfabetico - su «Futuro». Ossia sulla fosca previsione di
19 ricercatori - segnalata da Repubblica - che è
riassunta in questo titolo: «Animali e piante senza futuro, un
quarto estinto tra 50 anni». Lorenzetto sottolinea la futilità
di queste anticipazioni. Aggiungo, a conferma del suo saggio
scetticismo, la storiella dello scienziato londinese che sul
finire dell’Ottocento aveva stabilito - calcolando l’incremento
delle carrozze e dei carri a cavalli, e delle deiezioni lasciate
dagli animali - che nel 1920 la città sarebbe stata ricoperta
dallo sterco. Al suo meticoloso studio mancava una piccola
incognita, l’automobile.
Proseguiamo. Infastidito, chi non lo è, dal proliferare delle
lauree honoris causa - una tra l’altro a Vasco Rossi, e non
parliamo delle lezioni universitarie di canzonettisti e
conduttori tv - Lorenzetto ricorda che dei sei Nobel italiani
per la letteratura solo due, Carducci e Pirandello, avevano la
laurea, e che senza laurea erano nomi famosi della cultura. Non
l’avevano né Montale, né D’Annunzio, né Verga, né Benedetto
Croce.
Spulciatore instancabile di quotidiani, Lorenzetto ha puntato
l’occhio sulle offerte di lavoro. Cercansi: key account manager,
buyer, controller, system engineer, broker, seasonal cabin
attendant, etc. Su The Times? No, sul Corriere della
Sera. Eppure gli equivalenti italiani esistevano. Una
riflessione amara ma verissima: i matrimoni di oggi durano meno
del fidanzamenti. Ci sono morosi che si frequentano anche per
dieci, quindici anni, prima di sposarsi. Poi si sposano «e in
capo a 36 mesi sono già separati». Poche righe per enunciare una
situazione che i sociologi professionisti avvolgono in
tonnellate di chiacchiere inutili.
Allo stesso modo sembrano a Lorenzetto chiacchiere inutili - e
anche a me - quelle con cui certi ambientalisti negano che il
loro no al nucleare ha pregiudicato l’autonomia energetica e lo
sviluppo dell’Italia (vedi poche ma sentite righe dedicate
all’onorevole Ermete Realacci). E poi un grazie a Lorenzetto per
avere ricordato Cesare Marchi, scrittore, divulgatore di
gastronomia, piacevolissimo commensale: anche un po’ goloso
tanto che lo chiamavamo «la volpe del dessert».
Chiudo con due rapide citazioni. La prima riguarda un appunto di
Lorenzetto, moralista amabile, a Michele Serra, moralista
arcigno. Serra s’era scagliato contro la «colonizzazione
pubblicitaria» della Rai e lo Stefano implacabile gli rinfaccia
d’essere stato protagonista, collaboratore, ospite o giullare in
33 trasmissioni corredate da pubblicità invadente.
A suggello, questo godibilissimo abbecedario ha un’invocazione:
«Aiuto! Salvateci dai tavoli che si aprono!». Per qualsiasi
problema si vuole aprire un tavolo. Lo si farà, vedrete, anche
per il ponte sullo Stretto e per la Tav. Basta. Lorenzetto
aiutaci tu.
11 giugno 2004
Ritratti di
un’Italia santa e cialtrona
di PAOLO GUZZANTI
Da collega a collega: il sentimento più forte che provo per
Stefano Lorenzetto è l’invidia. Una invidia rotonda, profonda,
etica ed estetica. Rotonda e profonda perché tutto quello che fa
lui, che lui scrive e indaga e cerca e trova, vorrei come i
bambini averlo cercato e scritto io. Etica, perché Lorenzetto è
di quelli che ti fanno sentire in colpa: è un pittore
ritrattista psicologo esperto svagato e preciso, che produce
arte sotto forma di giornalismo, il quale giornalismo arte non
è. Chi sta nella broda della politica, chi si illude di andare
in canoa sulle rapide della storia, o almeno della cronacona,
perde di vista ciò che lui invece vede.
Insomma, Stefano si è ritagliato il mestiere del puro, che si è
fatto monaco dopo aver vissuto nel bordello delle redazioni, dei
menabò e delle fotografie, didascalie, urla e ferraglie del
mestiere e si è ritirato nell’eremo della verità colta
trapassando il cuore della gente e la mente e la storia dei suoi
Tipi italiani.
E poi invidia estetica: come Busi ha scritto e come Sergio
Romano ha certificato (scusate se è poco) ciò che esce dalla sua
penna e dalla sua distesa lenzuolata, è senz’altro arte, figlia
dell’arte di un padre artigiano. Troppo banale avanzare l’ovvia
ipotesi che il vero tipo italiano sia lui, ma va detta: il suo
giornalismo, che adesso è rappresentato in una collezione di 25
vite di tipi italiani appena edite da Marsilio con prefazione di
Giovanni Minoli (un altro che di interviste se ne intende), è un
giornalismo da bottega rinascimentale, un giornalismo che va per
cascine, che scende dirupi e che scrive stretto, perfetto,
molato. Beato lui. A me tocca la maledizione di correre come un
dannato, rovesciarmi tumultuosamente sul fatto politico,
mitragliare la tastiera con le mie uniche due dita da battitura
e via, fiondare il malloppo via internet direttamente in
tipografia. Ed è per questo che leggo le sue perfette paginate
piene di libertà e mestiere, e godendo soffro. La mia sofferenza
per il suo talento ben speso, misura la mia ammirazione per lui
e per il suo coraggio nel prendere le distanze, nel pretendere
un vallo fra se stesso e la produzione del suo ingegno.
Questa collezione di venticinque ritratti è certamente un unico
ritratto di un’Italia a sorpresa, viva sotto le ceneri, capace
di sentimenti e di cialtronaggine, sontuosa e presuntuosa e
pretestuosa. C’è tutto il sangue con il Dna di un Paese che è
questo Paese e che non potrebbe essere né Francia né America, né
Germania né Russia. Sospetto che questi ritratti d’Italia siano
intraducibili all’estero, anche se traslati in lingua
forestiera, perché sono tutti autoritratti intimi della
sopravvivenza italiana, dei suoi delicati mostri, delle sue
inconfessate confessioni, le sue sfide continue alla modestia e
all’immodestia, intrise di carità, di cinismo, di follia
delicata o terribile (anche grottesca, ma mai volgare). Siamo
abituati a leggere certi racconti dell’America profonda, la
trilogia di Philip Roth che modula i suoi «tipi americani», ma i
ritratti di quel che è vivo e antico e permanente di una nazione
attraverso le storie di uomini non illustri, sono un’altra cosa
e sono esattamente quel che fa di Stefano Lorenzetto il tipo
italiano di scrittore che confina a Nord con Soldati e a Sud con
Sciascia, ma sempre da giornalista, da esperto del giornale, con
questa fantastica arroganza di aver preteso, ottenuto,
coltivato, disegnato, decorato, una pagina, anzi una paginata,
uno spazio spropositato e però perfettamente a misura.
E qui due parole sulla misura dello scrivere, avendo letto e
immagazzinato la lezione di Lorenzetto: il giornalismo corto, il
giornalismo didascalico, quello tagliabile come la pizza, è il
nostro nemico di oggi, è il cascame in carta stampata di quel
che la cattiva televisione (cioè quasi tutta la televisione)
vomita dalle cloache dei teleschermi. Il giornalismo dei veri
giornalisti è quello lungo, ampio, prepotente, arrogante,
dilagante (lo so, parlo «anche» pro domo mea, ma è Stefano che
me ne dà il coraggio impudico), quello in cui ti perdi, ti
ritrovi, ti infuri, ma non ti addormenti, non sbadigli. È il
giornalismo di chi sa che l’attenzione del lettore ha bisogno di
un elettroshock ogni venti secondi, sennò va in coma e gira la
pagina, è il giornalismo di chi ha il fegato di sfidare il
conformismo politicamente corretto.
I ritratti di Lorenzetto non sono da pugni e schiaffi, ma
ritraggono un’Italia che è anche da pugni e schiaffi, pietosa e
impietosa, dolcemente ridicola o edificante, incredibile, santa
o immorale a seconda delle circostanze. Lui tiene le distanze e
la barra in una navigazione che, in altre mani, naufragherebbe
nella retorica e nel prevedibile. Invece sta stretto sulle
domande e chiuso nelle risposte. Anche la stravaganza sta nello
spartito come la frase musicale. Inutile dire, ma anzi è
utilissimo, che questa dose forte di Tipi italiani offre
quattro ore cronometrate di lettura che ti raddrizza i neuroni
piegati e ti fa godere specialmente quando ti fa soffrire, e ti
fa soffrire ogni volta che in quei tipi che lui cerca, trova e
fissa con la parola, tu ritrovi un pezzo della tua gente e
dunque anche di te stesso. Ma al tempo stesso ti offre
prospettiva e distanza e via d’uscita, affinché, come ogni
italiano che si rispetti, possa anche giocare a fare l’anti
italiano, o l’arci italiano che è lo stesso.
10 febbraio 2000
Il cacciatore dei
Vip perduti
di STENIO SOLINAS
Da vicedirettore vicario di questo quotidiano, Stefano
Lorenzetto era l’incubo dei suoi colleghi. Munito di un
videoterminale che sembrava una portaerei, faceva quadrare i
sommari, pareggiava le didascalie, ritoccava gli occhielli,
cassava gli anacoluti, correggeva l’ortografia... Di fronte a un
grisé o a un titolo in negativo, aveva la reazione di un
bambino: «Qui ci vuole un New Aster condensato al 70 per cento,
out-line profilato con ombreggiatura nera a un punto», diceva
entusiasta picchiando sui comandi e maneggiando il mouse come
fosse una mitragliatrice. «Secondo te, non è meglio controllare
la scala orizzontale del titolo e i filetti?», chiedeva
retoricamente a chi, era evidente, non aveva ancora capito la
differenza tra un computer e una macchina da scrivere. Gli si
voleva bene perché era simpatico, era insopportabile perché più
bravo.
Da giornalista-scrittore di questo giornale, Stefano Lorenzetto
è la gioia dei suoi lettori. Che vada a ripescare un politico
scomparso, un cantante decaduto, un presentatore pensionato, lo
riporta sulla scena come se non se ne fosse mai andato: ce lo
riconsegna visivamente, con tutti i tic, le manie, le
incongruenze, le miserie e le grandezze di quando teneva banco.
Riesce a farsi raccontare ogni cosa, facendo finta di non voler
sapere niente. Dimenticati raccoglie trentuno dei
ritratti eccellenti che via via l’autore ha squadernato sulle
pagine del
Giornale in poco più di un anno: riuniti in volume, fanno
ancora più effetto, perché concorrono a ricreare l’identikit di
un’Italia svanita e che pure, fino all’altro ieri, sembrava
immarcescibile.
A volte, gli basta un accenno, una descrizione, una confessione
sofferta o un’orgogliosa affermazione, per farci capire con chi
abbiamo a che fare. Severino Citaristi e consorte, «lei così
piccola, lui così esile, davanti alla ribalta aperta del
cassettone trasformato in altare», dove ci sono le foto di
figlia e nipotino scomparsi, la signora che «cambia posizione
alle cornici d’argento, un pochino più a destra, poi di nuovo al
centro, prima le inclina come se dovessero guardarsi, poi le
raddrizza, ora più distanti, ora più vicine, infine quasi a
sfiorarsi», escono per quello che sono: una coppia per bene,
maciullata dalla propria debolezza, da un partito e dalla
stampa. L’onorevole Ferri, quello del divieto di superare i 110
chilometri all’ora, che si lascia andare: «Le confesso che la
mia vera vocazione sarebbe stata quella di fare l’attore», è la
prova provata che questo è un Paese dove i politici possono
essere clown e i clown possono fare politica. La lezione di
giornalismo di Gianfranco Funari: «Se mi avessero ascoltato,
avrei fatto grande L’Indipendente. Bastava spostare la
redazione da Milano, dove ci sono tanti giornali, a Torino, dove
c’è soltanto La Stampa», è degna del teatro dell’assurdo
di Ionesco. E se avesse messo i cronisti su una piattaforma in
mezzo al Mediterraneo, cosa avrebbe fatto? Il New York Times?
Ce n’è per tutti i gusti. Il simpatico Jader Jacobelli, la
camomilla di Tribuna politica, era così imparziale,
racconta, da «votare partiti sempre diversi, a rotazione. Non
volevo che uno pigliasse il sopravvento sugli altri».
Machiavelli, Guicciardini o Ridolini? Luciano Lutring, il
«solista del mitra», era così impegnato a recitare da duro che
«mentre ballavo alle donne ci facevo sentire la canna della
Smith & Wesson, invece dell’altra pistola, non so se rendo
l’idea. Dica lei se si può essere più imbecilli». Si può, ma
occorre un certo sforzo. Giovanni Valentini, oggi editorialista
della Repubblica, un tempo direttore dell’Espresso,
aveva a casa, «una magione enorme» racconta Sergio Saviane,
«un’imponente libreria». Il suo editore «abbagliato, tirò giù il
dorso della Chartreuse di Stendhal. Ma anziché un volume
gli cadde addosso una cassetta. Erano libri di falegnameria,
messi lassù per bellezza». Quando si dice una scrittura legnosa.
Il colonnello Amos Spiazzi, 25 anni di incubi giudiziari, tra le
tante accuse ebbe anche quella di avere nascosto «nella cantina
di mia madre un ordigno nucleare. Perso in mare da un
bombardiere americano sulla costa spagnola e recuperato dai
falangisti che me lo avrebbero spedito qui a Verona. Al momento
del golpe l’avremmo sganciato sul Vaticano se non ci fosse stato
consegnato il potere. Prima, per far vedere che non scherzavamo,
avremmo lanciato trenta paracadutisti su Montecitorio. Portati
nel cielo di Roma su un Macchi 416. Peccato che si tratti di un
aereo biposto». Credete che basti? I giudici che indagavano ci
pensarono su e poi decisero che avrebbe «potuto trasportare un
parà alla volta, facendo la spola con l’aeroporto di
Boscomantico, cinquecento chilometri più a nord». A volte il
dottor Stranamore indossa la toga e va a palazzo di giustizia.
Qualche ritratto provoca se non compassione, rispetto. Valerio
Zanone, di cui chi scrive non aveva, come politico, una grande
opinione, dimostra una lucidità nell’analisi e un contegno che
colpiscono. E non gli manca il senso dell’umorismo: si dimise da
sindaco di Torino consigliandosi «con il mio cane Condor, un
pastore tedesco. Peccato sia morto. Discutevo volentieri con
lui: era l’unico che mi dava ragione anche quando avevo torto».
E ancora: «Sto con me stesso. E non posso neppure affermare di
gradire la compagnia». Qualche altro conferma radicati giudizi
sulla pochezza della classe politica che ci ha governato.
Interrogato sulle sue scelte elettorali, Mario Tanassi risponde:
«Per i socialisti democratici». «Allora per L’Ulivo, l’alleanza
degli ex comunisti, i suoi nemici». «No, no, un momento,
aspetti. Forse per Dini». «Anche lui alleato con gli ex
comunisti». «No, no. Oh signore! Ma allora per chi ho votato?
Mah, con tutte quelle liste... ».
Difficile dire se in politica, nella cronaca, nel costume, si
stava meglio quando si stava peggio. Di quasi nessuno di questi
«dimenticati», si sente la mancanza. Ma non è che nel cambio ci
sia stato un passo avanti. L’ex dc Piccoli non valeva di meno
del Castagnetti che guida i popolari, per un Funari che
retrocede c’è un Fazio che avanza, Lady golpe Donatella Di Rosa
non abita più qui, ma Stefania Ariosto lotta sempre insieme a
noi... Per tutti questi eroi del nostro tempo, Lorenzetto ha la
pietas che nasce dal cuore semplice di chi conosce il mondo. Non
giudica, racconta. Come Flaubert, anche lui è «fasciné par la
bêtise». La «prevalenza del cretino» è uno spettacolo senza
pari.
7 luglio 1999
È inimitabile nel
ritrarre la gente
di EDITOR
Prima di redigere le motivazioni del premio di giornalista del
mese a Stefano Lorenzetto de il Giornale, debbo fare una
premessa. Lorenzetto, al pari di Gian Antonio Stella, fa parte
dell’Olimpo del giornalismo italiano. Entrambi stanno tra i
piedi a chiunque abbia il compito, come me, di premiare un
giornalista. E stanno tra i piedi perché andrebbero premiati
tutti i mesi. Dare loro il premio a febbraio, a maggio o a
settembre è la stessa cosa. Sarebbe sempre motivato perché quasi
ogni volta che scrivono redigono un capolavoro.
Se in Italia esistessero dei master di giornalismo degni di
questo nome, Lorenzetto e Stella andrebbero precettati una
settimana al mese e coperti d’oro per far imparare, ai pochi
fortunati, questo mestiere che, sui loro computer, sconfina
nell’arte.
Ma veniamo al dunque. Premio Lorenzetto questo mese (e non nei
mesi precedenti) perché in giugno (il 23) ha scritto un pezzo
meno lungo del solito e quindi più facilmente ripubblicabile.
Per quanto il direttore di ItaliaOggi, Pierluigi
Magnaschi, mi voglia bene e per quanto, anche lui, apprezzi
oltremisura il talento giornalistico di Lorenzetto, non è
disposto a dedicargli gran parte dello spazio di questo
supplemento di MarketingOggi.
Dovevo quindi per forza, per poterlo premiare, intercettare un
Lorenzetto momentaneamente sobrio di parole. Ma non vorrei
essere frainteso. Non dico certo che Lorenzetto sia uno
sbrodolone come qualche suo collega de il Giornale.
Lorenzetto scrive le parole che ci vogliono. Non una in più.
Sono infatti del parere di Nino Nutrizio, il leggendario
direttore de La Notte (che era così bravo che, essendo
lui fascista, scriveva dei fondi che venivano attesi e divorati
con passione dai metalmeccanici di sinistra). Ebbene, Nutrizio
diceva: «Non ci sono articoli brevi e articoli lunghi. Ma
articoli che si leggono fino in fondo e articoli che si
abbandonano prima. I primi sono dei begli articoli, i secondi
no».
Lorenzetto è un giornalista maratoneta. Ha bisogno di spazio per
esprimersi al meglio. Se fosse stato pittore avrebbe affrescato
le pareti delle cattedrali e avrebbe disertato i quadretti. Il
personaggio di cui lui vuol parlare, che vuol ritrarre, lo
studia a lungo, ne individua le caratteristiche, le manie, i tic
fisici e lessicali. E poi lo ritrae con minute pennellate di
parole.
Lorenzetto infatti è uno che ama portare la vita nella pagine
dei giornali. In quotidiani colpevolmente tutti uguali (perché,
allora, acquistarne più di uno?) Lorenzetto marca la differenza.
Racconta, a modo suo, la gente. Smitizza i personaggi.
Il protagonista dell’articolo premiato, per esempio, è uno
stravagante che viene ritratto con grande attenzione. Lorenzetto
non si impegna solo con i grandi della cronaca ma si dedica
totalmente anche ai personaggi umili e maldestri ma comunque
significativi di un’Italia che cambia. Sgangheratamente, magari.
Ma che cambia.
Lorenzetto, con la sua prosa asciutta e il suo sguardo stupito,
vuol prima capire per poi far capire. Non ha tesi da svolgere,
teoremi da sviluppare, idee da imporre. Il suo non è lo sguardo
febbrile del profeta o dell’agitatore ma l’occhio curioso di un
Piero Chiara educato dalle letture appassionate di Dino Buzzati
e allevato nell’amicizia rasserenante di Cesare Marchi, suo
vicino di casa.
Lorenzetto è un giornalista importante anche perché non si
prende sul serio. I protagonisti dei suoi articoli (lo si
avverte anche in quello ritratto in questa stessa pagina) sono a
loro agio con Lorenzetto. Si confessano, si confidano. Vuotano
il sacco. E Lorenzetto, come quei cercatori di funghi che sono
stati fortunati, versa a sua volta il sacco davanti ai suoi
lettori che, senza ancora saper bene di che cosa si tratta,
hanno già l’acquolina in bocca.